Campania, provincia di Caserta, feudo di quello che fu il clan dei Casalesi dei mille morti ammazzati e delle stragi revansciste che avrebbero dovuto fermare – e non lo fecero – il primo maxiprocesso alla camorra degli affari e gli ergastoli a chi quegli omicidi aveva commissionato. Cadono, in questi giorni, gli anniversari di alcuni dei delitti più feroci, delle morti innocenti di uno sconosciuto sindacalista e di un prete di paese, Federico Del Prete e don Peppe Diana.
E nelle celebrazioni del ricordo, su social e giornali ecco i volti di quanti, in loro nome, continuano la battaglia contro la mafia. Ci sono magistrati, uomini in divisa, giornalisti. E tanta gente comune alla quale è difficile, forse impossibile, attribuire una univoca etichetta di partito.
La crisi dei partiti
Di sinistra, di destra, di nessuna parte, pezzi di società fluida che si aggregano attorno a un ideale che non ha bandiera. Vale per le associazioni antimafia, vale per gli ambientalisti, vale per le associazioni culturali che promuovono libri e video di autori locali, vale per i comitati civici.
La crisi dei partiti ha reso evidente, per la verità, ciò che era già prima: le persone oneste lo sono a prescindere; la mafia (e la camorra, e la ‘ndrangheta) continua a pescare i suoi sodali tra quanti detengono il potere, indifferente al colore.
E i partiti, tutti i partiti (ma soprattutto il Pd, che ha ereditato quelle che furono forma e organizzazione del Pci e della Dc) non sono più in grado di assolvere al compito di aggregare il consenso attorno a quei temi.
Non solo per le pulsioni populiste generalizzate, ma per mancanza di parole d’ordine e di programmi chiari, coerenti, univoci, ridotti al rango di slogan. Così, sui temi più complessi della giustizia penale e della sicurezza, dal 41 bis all’ergastolo ostativo, dalle confische all’amministrazione dei beni sequestrati e all’impiego dell’esercito, non è possibile ravvisare differenze tra destra e sinistra, tra pensiero conservatore e ideali progressisti.
La malattia della semplificazione
Caduti tutti nella trappola dei social, luogo della semplificazione (e della forca) per eccellenza. E non è un caso, probabilmente, che pur di non scontentare la pancia del paese, molte scelte rispondono a un’ottica esclusivamente securitaria (il carcere come unica pena possibile, per esempio, con la riforma dell’esecuzione penale che, pur approvata oltre cinque anni fa non è mai stata attuata) e non di prevenzione e di giustizia effettiva.
Non ha molto senso, oggi, rivendicare un’esclusività della sinistra nella lotta alla mafia, traslando l’impegno che fu del Pci nelle attuali formazioni politiche; non ne ha nemmeno cercare di mettere al bando la destra (non certo quella stragista, con le sue documentate collusioni con Cosa Nostra, ’ndrangheta, camorra) sugli stessi temi.
Perché la storia dei singoli è ben diversa – altrimenti sarebbe come strappare a metà la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di differente origine culturale e politica eppure grandi amici, uguali nell’impegno antimafia e nella tragedia – e perché in parlamento, come nella società civile, raramente ci si è divisi sulla legislazione antimafia o sul complessivo impianto della sicurezza nazionale.
La questione meridionale
Di volta in volta, a seconda del colore del governo locale (comunale o regionale) la cronaca giudiziaria e le sentenze ci raccontano fatti e sistemi che fanno riferimento a quella maggioranza pro tempore, con collusioni e compromissioni molto gravi ma che riguardano tutti: dal Pd a Forza Italia a Fratelli d’Italia.
Ma è sbagliato attribuire la responsabilità di quei fatti al posizionamento ideologico del partito di appartenenza, per la verità volatile quanto buona parte dell’elettorato. Molto invece ci sarebbe da dire sulla mai esaurientemente affrontata e risolta questione meridionale.
Se le organizzazioni mafiose continuano a cercare e trovare solide sponde nella politica è perché non è mai venuto meno il reciproco interesse a coltivare quei rapporti: affari contro voti, sempre più fluttuanti e sempre più scambiabili con la promessa di un posto di lavoro, di una bolletta pagata, di un posto in ospedale per il familiare ammalato.
Bisogni primari ai quali al sud (ma non più solo al sud) la politica, quale che sia il suo colore, non riesce a dare risposte.
Conoscere la storia
Nella storia del nostro paese c’è un capitolo quasi mai raccontato sui libri, poco studiato nelle università, male approfondito se non nella sua parte più tragica – le stragi di Capaci e via D’Amelio – e affidato quasi esclusivamente alle manifestazioni delle giornate per la Legalità.
È quella parte di storia italiana (sua parte integrante, sostiene lo storico Isaia Sales) che è la storia della mafia, nelle sue varie declinazioni regionali: dalle origini a Portella della Ginestra, dalle stragi di Bologna a quelle del 1992/1994, dall’alleanza tra Raffaele Cutolo e le Br all’attentato del Rapido 904. Fino ai giorni nostri.
E non è retorica ripetere che conoscerla serve a comprendere ciò che è accaduto ma anche ciò che potrà ancora accadere. Sotto altre forme e con altri nomi, ma per le stesse ragioni. Una lezione che ha dovuto imparare chi si credeva immune dal contagio per aver visto cadere per mano mafiosa i suoi padri e i suoi compagni, e che dovrà ben studiare chi solo ora si trova a confrontarsi con l’esercizio del potere.
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