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Caduto un drone, se ne fa un altro

Lo scontro con i caccia in volo sul Mar Nero ha messo a nudo le debolezze dei velivoli senza pilota. In attesa della nuova generazione, più veloce e sempre più autonoma

(Gianluca Di Feo – repubblica.it) – Con lo schianto di martedì nelle acque del Mar Nero si chiude la prima era dei droni da combattimento e si apre il futuro dei veri robot guerrieri. All’inizio del millennio il Reaper e il suo fratello più anziano Predator sono stati protagonisti di una rivoluzione nella storia umana che ha cambiato il concetto di guerra. Anzitutto, hanno permesso di uccidere guardando il nemico ma senza correre rischi: il pilota dell’aereo che attacca in Afghanistan o in Libia si trova a migliaia di chilometri, spesso nella base di Creech, nei pressi di Las Vegas. Questa prerogativa, all’inizio posseduta esclusivamente dagli Stati Uniti, ha ribaltato l’equazione letale degli attentati terroristici: i kamikaze jihadisti hanno inflitto danni enormi con un costo limitato – quello che veniva definito “conflitto asimmetrico” – poi l’ingresso in scena dei Predator ha capovolto la situazione. I leader di Al Qaeda e Isis sono stati eliminati uno dopo l’altro senza avere possibilità di reagire. Ed è scomparso lo spazio fisico dello scontro, rendendo possibile eseguire sentenze di morte a distanza illimitata.

Poche innovazioni hanno avuto così tante ripercussioni etiche, psicologiche, giuridiche e politiche. Ne ha discusso il professore francese Grégoire Chamayou in “Teoria del drone” – edito da DeriveApprodi – cercando di definire come avessero influito nei “principi filosofici del diritto di uccidere”. Ma lo si è visto anche in film e popolari serie tv che hanno raccontato l’impersonale quotidianità degli ufficiali impegnati a dirigere missili maneggiando un joystick come travet bellici.

Il Predator però è un mezzo formidabile e allo stesso tempo rudimentale: in pratica è la versione king size dei modelli giocattolo radiocomandati, dove la tecnologia di fatto era un accessorio e non la struttura. Tanto che alle prime prove di battaglia reale i droni hanno rivelato tutta la loro fragilità: lenti, goffi, esposti ai capricci del meteo e indifesi contro i nemici. Si è visto in Libia, con la contraerea della Wagner che ne ha buttati giù tre, e pure contro l’Iran, che ha distrutto con facilità un più moderno e costoso Globalhawk. Poi la sfida al largo della Crimea ha mostrato il Reaper impotente in balia dei due Sukhoi, che lo hanno spinto in mare con l’onda d’urto delle loro virate.

Pochi giorni prima dello schianto, a Washington il sottosegretario Frank Kendall ha annunciato l’alba della nuova era: il Pentagono intende acquistare mille Loyal Wingman, termine aeronautico per indicare qualcosa di simile al “gregario fidato” che affianca il campione nelle gare ciclistiche. I Loyal Wingman sono droidi da Star Wars, con un intelligenza artificiale che li guida in modo autonomo mentre fanno squadra con un caccia pilotato. Questo perché ci sia sempre un essere umano a intervenire quando le macchine sono in difficoltà – cosa che non è stata possibile nel duello del Mar Nero -, anche se non è chiaro se il gregario sarà il robot o il pilota in carne e ossa.

Siamo davanti a un’evoluzione della specie, profetizzata dieci anni fa da William Langewiesche, scrittore e istruttore di volo: “Per sopravvivere, i droni devono diventare qualcosa di diverso dalle macchine telecomandate che sono oggi. In sostanza, devono trasformarsi in robot autonomi, capaci non solo di navigare e volare senza ausili esterni, ma anche di compiere manovre di qualsiasi genere, di percepire il pericolo, di individuare i nemici da colpire. Devono imparare a prendere decisioni elettroniche, cioè istantanee”.

I prototipi del Loyal Wingman sanno fare tutto questo. Vanno a mille chilometri orari, con evoluzioni che nessun uomo potrebbe tollerare, e sono invisibili ai radar: agiscono in simbiosi telematica, coordinandosi tra loro. Scambiano in tempo reale i dati con il loro aereo-madre, che sarà inizialmente l’F-35. E anche l’Italia, assieme a Giappone e Gran Bretagna, sta progettando un sistema del genere per il caccia Tempest.

Lo stesso concetto non si limiterà al cielo, ma sta già venendo declinato in mare e in terra. Il carro armato del futuro sarà al centro di una pattuglia di droidi cingolati e lo stesso accadrà con le navi e i sottomarini: sciami misti di mezzi con equipaggio e altri con cervelli cibernetici più rapidi nelle decisioni degli esseri umani. Come si comporterà questa armata ibrida nel momento di scegliere tra vita e morte? Chi avrà l’ultima parola? Ancora una volta, la tecnologia sta precedendo le regole, sia morali che d’ingaggio.

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