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Modello Svezia batte lockdown: un bilancio definitivo – Marco Hugo Barsotti

Parliamo del caso Svezia. Parliamo di forse l’unica nazione occidentale che durante la pandemia del Covid-19 non ha abolito i diritti costituzionali dei cittadini e non ha imposto divieti irrazionali.

In un periodo in cui gran parte delle democrazie occidentali seguivano l’esempio della Cina, adottando inefficaci app che invitavano a isolarsi se mai si fosse passati vicini ad un untore (peraltro una certezza in determinati periodi), ma soprattutto limitavano le libertà personali e obbligavano ad indossare le cosiddette mascherine.

Pratica comune un po’ ovunque, tranne appunto in Svezia, una nazione ripetutamente e aspramente criticata da giornalisti e virologi, e per la quale si prevedevano le peggiori catastrofi.

Abbiamo deciso di andare a vedere qualche dato consuntivo per effettuare un confronto, al fine di cercare di capire se tutti i divieti che abbiamo subito fossero davvero necessari. Come sempre abbiamo cercato dati reali, numeri e non opinioni di esperti.

Tramite un portale ufficiale, quello della World Health Organization (WHO) e utilizzando le potenti query possibili grazie a WolframLanguage.

Fiducia nelle persone

Ma prima riassumiamo brevemente quanto accadeva in quei tristi mesi in Svezia. In estrema sintesi, mentre tutto il mondo si chiudeva e limitava fortemente le proprie attività economiche e sociali, la Svezia restava aperta. “La vita deve continuare”, titolava un articolo del New York Times dell’aprile 2020.

Svedesi pazzi? No, fiduciosi nelle persone, nella capacità degli individui di agire in modo sensato. A titolo di esempio, nell’articolo appena citato una signora di 82 anni spiegava: “Cerco di non andare troppo vicina agli altri: e ho fiducia che gli altri facciano lo stesso con me”.

Il falso delle vie affollate

Da notare che le strade non erano deserte: e infatti ricordiamo che la stampa era andata a scovare anche per Stoccolma foto analoghe a quelle della zona navigli di Milano, pubblicate a ripetizione dai quotidiani italiani più vicini all’ideologia dittatoriale dell’allora presidente del Consiglio.

Come ricordiamo tutti, venivano allora pubblicate immagini di folle immense accalcate su una via Ripa di Porta Ticinese stranamente corta. Il trucco dei virtuosi giornalisti? Scattare foto con obiettivi a lunga focale, 400 o più millimetri. Focali che per loro natura “schiacciano” i soggetti, facendo apparire vicino ciò che è lontano.

Le due immagini qui sotto illustrano il concetto (basta confrontare la posizione degli oggetti nei riquadri di colore celeste e verde nelle due foto).

Con il risultato, se ci permettete un’ultima digressione, di rendere il sindaco di Milano “incazzato nero” e fargli apparentemente dichiarare: “scene sui Navigli vergognose, o cambiamo o chiudo”.

E – abbiamo verificato – con “cambiamo” non intendeva obiettivo, non voleva che i fotografi utilizzassero un normale 35mm (o anche un iPhone). No, voleva che tutti (gli altri) restassero a casa. Niente Spritz con gli amici, fatevi una spuma in famiglia.

Svezia aperta

A luglio 2020 l’approccio scandinavo aveva portato ad una percentuale di morti per Covid (22 su 100.000) migliore ad esempio di quella della Francia. Una nazione dove il presidente Macron faceva a gara con il nostro “avvocato del popolo” nell’imporre divieti: “massimo un’uscita al giorno, per massimo un’ora e non più distanti di un km da casa”, era la regola francese (unica eccezione: chi aveva il cane, previa compilazione di una dichiarazione sull’onore che attestava che l’animale avesse bisogni fisiologici più di una volta al giorno).

Mentre in Svezia nessun obbligo di chiusura dei ristoranti, nessun confine sbarrato, scuole aperte così come i centri yoga, le palestre e le sale cinematografiche. Vietati solo i raduni che prevedevano un’affluenza superiore alle 50 persone e le visite alle case di riposo.

E, sempre secondo il New York Times, i pedoni che indossavano una mascherina venivano guardati con estrema meraviglia, quasi fossero marziani.

I numeri svedesi

Ed eccoci appunto ai dati. Cosa scegliere? Non la percentuale di persone infette, sia perché è esperienza comune che non tutti coloro che si ammalavano andavano a dirlo alle autorità (pertanto il numero dei “casi” era senza dubbio globalmente sottostimato), sia e soprattutto perché – ad eccezione dei primi mesi – in molti casi si trattava di una malattia che bloccava a casa per una o due settimane ma non obbligava ad una permanenza in ospedale (e neppure a passare a miglior vita).

In breve, l’unico dato che pensiamo sia significativo è il numero dei decessi. Il dato, come dicevamo, viene dal WHO, che nelle note metodologiche afferma: “il conteggio riflette i casi di morte confermati e sono soggetti a continue verifiche, con possibili aggiornamenti retrospettivi. Eventuali errori scoperti da o riportati all’WHO sono corretti ad intervalli regolari”. Possiamo dunque presupporre che i dati siano ormai sufficientemente esatti e omogenei tra le varie nazioni, permettendoci un confronto diretto.

Cosa dicono dunque i numeri? Sono state più efficienti le pratiche repressive basate sull’assunto che il popolo sia irresponsabile – nel nostro caso illustrate da Italia, Francia e Regno Unito – o quelle più rispettose della libertà individuale – ma al contempo più temerarie – della Svezia?

Avremmo potuto pubblicare decine di tabelle o grafici, ma visto che chi legge può farlo in prima persona abbiamo deciso di lasciarvi il piacere di scoprirlo da soli osservando un unico grafico, questo:

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