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Le parole del Papa in Congo: un altro mattone sul muro d’odio contro l’Occidente – Anna Bono

C’è chi ha camminato nove giorni per poter vedere il Papa anche solo un momento. Ma chissà che cosa delle sue parole resterà nella mente e nel cuore degli africani ai quali Francesco si è rivolto durante il suo viaggio apostolico, iniziato il 31 gennaio e terminato domenica 5 febbraio.

A più riprese Francesco ha denunciato “il veleno dell’avidità”, ha raccomandato di non cedere alla tentazione della corruzione e ha esortato a superare le divisioni etniche e regionali che alimentano odio e violenza. Ne aveva motivo.

Corruzione e tribalismo

Corruzione e tribalismo sono due piaghe che affliggono l’Africa e che sembra impossibile sradicare. Proprio i Paesi che il Papa ha deciso di visitare, Repubblica democratica del Congo e Sudan del Sud, sono casi esemplari di quanta rovina possano causare, soprattutto se avidità e divisioni sono alimentate dalla disponibilità di risorse immense.

Povertà estrema

Entrambi sono provati da lunghi, feroci conflitti. Ricchissimo di materie prime, il Congo tuttavia è uno dei Paesi più poveri del mondo: il 70,99 per cento della popolazione è in condizioni di estrema povertà disponendo di meno di 2,15 dollari al giorno per vivere.

Peggiore ancora è la situazione del Sudan del Sud che, nonostante abbia acquisito tre quarti dei giacimenti di petrolio del Sudan dal quale si è diviso diventando indipendente nel 2011, detiene il primato mondiale della povertà estrema con l’80,71 per cento degli abitanti in questa condizione.

I gruppi armati

Da quasi 30 anni sono attivi nell’est del Congo decine di gruppi armati, alcuni antigovernativi, quasi tutti a composizione etnica, nati per difendere le rispettive comunità e i loro territori, molti sostenuti da tre Paesi confinanti: Uganda, Rwanda e Burundi.

Vivono di razzie, bracconaggio e contrabbando di materie prime e agiscono quasi incontrollati nonostante la presenza della più grande missione di peacekeeping, la Monusco, istituita nel 2010 in sostituzione della precedente, la Monuc, e forte di 18.278 tra militari, esperti, civili, agenti di polizia e osservatori militari.

È nei pressi di Goma che nel febbraio del 2021 è stato ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio mentre incautamente percorreva senza scorta la strada che collega Goma al centro minerario di Rutshuru, una delle più pericolose del continente tanto da essere stata soprannominata “la strada della morte”.

Il saccheggio delle risorse

L’est è la regione più instabile del Congo, ma tutto il Paese risente delle conseguenze di decenni di governi affidati a uomini impegnati in una corsa sfrenata ai proventi della vendita di materie prime preziose, trascurando infrastrutture e servizi al punto da rendere difficile per la gente comune persino spostarsi e quasi impossibile condurre un’esistenza sicura.

Anni fa una commissione Onu aveva denunciato lo sfruttamento, il saccheggio sistematico delle risorse naturali del Congo compiuto dalle sue leadership politiche. “Noi siamo congolesi – avevano replicato in un documento ufficiale i membri del Parlamento accusati – e quindi possiamo fare quel che vogliamo del nostro Paese, le sue risorse ci appartengono, non si può dire che le stiamo saccheggiando”.

Da Mobutu a Tshisekedi

Il diritto dato per scontato di attingere alle casse dello Stato, se solo se ne ha l’opportunità, era stato affermato anni prima da Sese Seko Mobutu, presidente del Congo dal 1965 al 1997. Nel 1988, intervistato dalla rivista francese Jeune Afrique, ebbe a dire: “mentirei se affermassi che non possiedo un conto in banca in Europa, mentirei anche se dicessi che quel conto non è ben fornito. È vero. Ho un sacco di soldi. Che c’è di strano per una persona che da 22 anni è presidente di un Paese tanto grande?”

Dopo di lui, ci hanno pensato Laurent-Désiré Kabila, dal 1997 al 2001, e suo figlio Joseph, fino al 2019, a dirottare sui loro conti bancari milioni di dollari di fondi pubblici. Joseph in meno di 20 anni è riuscito così a incrementare i beni ereditati dal padre fino a costituire uno dei maggiori imperi finanziari e immobiliari del continente.

L’attuale presidente, Félix Tshisekedi, è risultato vincitore alle presidenziali di fine 2018 nonostante le accuse di gravi irregolarità e brogli mosse tra l’altro anche dalla Chiesa cattolica che aveva posto 40 mila osservatori a monitorare il voto.

Indipendenza ma non stabilità

Artefici della rovina del Sudan del Sud, mossi dalle stesse motivazioni, sono il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. Dinka il primo e Nuer il secondo, le due etnie dominanti, sono responsabili di aver scatenato nel 2013 un conflitto armato a due anni soltanto dall’indipendenza dal Sudan che avrebbe invece dovuto inaugurare un’epoca di stabilità e sviluppo.

Nel 2011 quasi all’unanimità i sud sudanesi avevano scelto la secessione dal Sudan, dominato da etnie di fede islamica e origine araba dalle quali erano stati perseguitati e schiavizzati per decenni. Il Paese era in macerie, ma poteva contare sull’illimitato sostegno internazionale in termini finanziari e si ritrovava proprietario di tre quarti dei giacimenti di petrolio sudanesi in parte già sfruttati e quindi in grado di produrre introiti miliardari.

Ma proprio per questo corruzione e tribalismo hanno prevalso. Le cariche politiche e amministrative sono state spartite e in gran parte assegnate ai Dinka e ai Nuer. Chi le ha occupate ne ha approfittato senza ritegno.

La guerra civile

Poi il presidente Kiir all’inizio del 2013 ha deciso di accentrare ulteriormente il potere nelle mani dei Dinka e i Nuer hanno reagito. È iniziato uno scontro politico che nel volgere di poche settimane si è esteso all’esercito e alla popolazione, ed è stata guerra civile caratterizzata da toni da pulizia etnica e da episodi di violenza raccapriccianti.

Gli accordi di pace del 2018 hanno migliorato la situazione, ma la loro attuazione è lenta, lungi dall’essere completa, e molti gruppi armati a base etnica non si sono sciolti e tuttora combattono. Nel 2022 gli scontri a livello locale si sono intensificati e restano inoltre altissime le tensioni tra i militari Dinka e Nuer. Kiir e Machar hanno riaffermato la loro volontà di pace ad aprile, ma lo fanno da dieci anni.

Tentato golpe

Il 15 dicembre scorso il presidente Kiir ha annunciato che era stato sventato un tentativo di colpo di stato militare. Intervenendo a una cerimonia ufficiale, il 25 gennaio, ha preso la parola per avvertire che in caso di altri tentativi di golpe nessuno sarà risparmiato.

Ha indicato la rivalità politica come il principale ostacolo al consolidamento della pace, della sicurezza e dell’unità del Paese: “il nostro problema è che tutti vogliono essere il numero uno, vogliono il primo posto. La questione del numero uno è ciò che ha scatenato questa guerra nel 2013”. Lui, che è il numero uno, di sicuro ha intenzione di continuare a esserlo, costi quel che costi. Finora è costato più di 400 mila morti e almeno quattro milioni tra sfollati e rifugiati.

Cause endogene

Repubblica democratica del Congo e Sudan del Sud sono ennesime, certe prove di come quasi sempre sia un errore cercare lontano le cause di povertà, conflitti, instabilità e violenza in Africa, attribuirle a soggetti ed eventi esterni al continente.

Eppure Papa Francesco ha pensato bene di inaugurare il suo viaggio in Africa denunciando il “nuovo colonialismo economico” che, terminato quello politico, si è scatenato altrettanto schiavizzante per sfruttare, saccheggiare e depredare l’Africa.

“Giù le mani dalla Repubblica democratica del Congo, giù le mani dall’Africa”. Così ha esordito pronunciando il suo primo discorso nella capitale del Congo, Kinshasa. Forse sono proprio queste le sue parole, il suo “grido accorato”, come è stato definito, che più resteranno impresse nella mente degli Africani. E allora avrà solo aggiunto un altro mattone al muro di risentimento e odio che da decenni si va costruendo contro l’Occidente.

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