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La scrittura autobiografica funziona se genera empatia

Praticare la scrittura autobiografica non è una passeggiata. La maggior parte degli autori impiega anni prima di essere in grado di estrarre ciò che è più prezioso e interessante dalla propria vita e portarlo sulla pagina in una forma minimamente coerente e coinvolgente.

Alcuni, per diffidenza o semplicemente per paura, si guardano bene dall’avventurarsi su questa strada. Talvolta però qualcuno ci prova e, travolto dall’impulso tutto umano di poter interpretare con la scrittura la propria realtà interiore, prima di quella esteriore, non riesce a smettere.

È indubbio che l’autobiografia aiuti chi la fa ad elaborare il proprio passato e posizionarsi ad una distanza critica utile ad osservarlo senza sentirsene travolto. Qualcuno la definirebbe terapeutica. La fumettista M.S. Harkness, frequentemente interpellata sull’argomento, ritiene che sia il modo migliore per essere sé stessa senza dover sostenere il peso dello sguardo altrui (un peso che conosce bene, dal momento che i racconti delle sue disavventure erotiche generavano sempre dell’imbarazzo nei suoi amici, quando si sfogava alle feste).

Alter ego

Sollevatrice di pesi professionista, Harkness ha iniziato a fare fumetti quando studiava come grafica in Minnesota e ha continuato anche mentre portava a termine la sua certificazione di personal trainer in Ohio. Le sue graphic novel autobiografiche Tinderella e Desperate pleasures sono state recentemente pubblicate in Italia da Add Editore, con la traduzione di Alessandra Castellazzi. Vengono considerate sequenziali, anche se non è necessario leggerle in ordine per comprenderne il contenuto.

Come per tutta la sua cospicua produzione autobiografica, la protagonista dei volumi è il suo alter ego giovanile: studentessa ventenne, povera in canna, che affronta l’intimità con estrema difficoltà e ricorre al sesso e altri piaceri disperati per fuggire al trauma che ha segnato la sua infanzia.

Mettere ordine

Se Tinderella – come il titolo lascia ad intendere – ironizza sugli alti e i bassi dell’amore nell’era del dating online mostrandoci una M.S. divisa tra il college, palestra e incontri occasionali, Desperate pleasures espande questo canovaccio concedendo però spazio anche all’elaborazione della violenza sessuale subita quand’era bambina.

Nel fumetto, tematicamente più ricco e graficamente più maturo del precedente, vediamo che la situazione economica di Harkness non è migliorata, e lei arrotonda come può spacciando erba e organizzando appuntamenti con partner facoltosi, i cosiddetti sugar daddy, che in cambio di compagnia o amore sessuale le offrono denaro e regali. L’app di Tinder è disinstallata da un pezzo e questa nuova modalità relazionale sembra averle fatto dimenticare le delusioni e umiliazioni che raccontava nel libro precedente. Forse, per la sua natura più codificata e pragmatica, lo sugar dating le ha risolto un bel po’ di grane. Arriva però il momento in cui anche quello non basta più.

«Per un po’ ho usato il sesso come distrazione da quanto fosse insoddisfacente la vita», spiega il suo avatar a fumetti, con i capelli neri raccolti in una coda di cavallo oversize, simile a una freccia che punta verso di lei, se non pure una spada di Damocle. «Ora ho bisogno di distrarmi da quanto sta diventando insoddisfacente il sesso». Per quanto disperati possano essere i piaceri in cui indulge, Harkness sta “iniziando a capire” che la sua vita ha bisogno di una svolta, che gli anni di distacco e mania solo stati solo paradisi artificiali. Ha bisogno di imparare a convivere con le sue emozioni, per quanto spiacevoli. Mettere in ordine la sua vita, raccontare quello che le è successo.

Trauma nascosto

In una sequenza chiave del libro, Harkness immagina di condurre uno spettacolo di stand up in un teatro gremito. Si vede il pubblico, inizialmente adorante, modificare la propria reazione mano a mano che il monologo si fa più oscuro. Basta un primo cenno agli abusi subiti quand’era bambina e gli applausi si diradano; due battute sulle visite dalla ginecologa e le persone lasciano la sala disgustate.

Un concetto è chiaro all’autrice: nessuno vuole sentir parlare di trauma (persino i suoi partner tutti muscoli e poco cervello parlerebbero più volentieri di “figli” o “matrimonio” piuttosto di ritrovarsi invischiati nelle conseguenze di un’esperienza così devastante). Ma diventare adulti significa affrontare i propri problemi, indipendentemente dal fatto che agli altri interessi o meno come stiamo.

Aprire il cuore significa anche comprendere perché era chiuso, quali emozioni lo tenevano imprigionato. Farle riaffiorare sul foglio apre la strada ad un’altra tipologia di sfida, complessa ma utile: essere vulnerabili e “visibili” alle persone che per noi sono significative.

M.S. Harkness non pensa di essere in grado di amare, ma in Desperate pleasures è lei e nessun altro a raccontarci di aver confessato ad uno dei suoi amanti di essere innamorata. Così come è lei che ci racconta la serenità che le dà la compagnia del fratello minore, che si allena nella sua stessa palestra e ha sempre voglia di ascoltarla confessare le ultime novità.

Empatia per tutti

Gli autobiografismi più riusciti, e quello di Harkness è tra questi, hanno la capacità di generare empatia per personaggi che non sono (solo) quello principale. Nel suo lavoro non c’è risentimento verso i comprimari, gli antagonisti. Lei è consapevole che ognuno di loro stia facendo “del suo meglio” per affrontare i suoi problemi, proprio come lei. M.S. non è una persona in grado di odiare. Anche se forse le semplificherebbe la vita…

M.S. Harkness non è intenzionata a lasciarsi annientare da ciò che le è successo, e sul finale del libro non ha paura di mostrarsi vulnerabile esplicitando il suo desiderio di accogliere anche la negatività che aveva sempre respinto e soffocato, per riprendere (finalmente) il controllo dei suoi sentimenti. Se, come ammoniva Jack Kirby, i fumetti ci spezzeranno il cuore, probabilmente sapranno anche insegnarci come ripararlo e renderlo più forte.

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