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La povertà aumenta: triplicata in 18 anni, dov'era la sinistra? – Il Riformista

Monsignor Zuppi, che è il capo della Conferenza dei vescovi italiani (cioè, per capirci: non è il capo del partito comunista), intervenendo all’incontro nel quale la Fondazione Cariplo ha presentato il suo rapporto sulla disuguaglianza (la fondazione Cariplo è emanazione di una banca lombarda. Cioè: non è di origini bolsceviche) ha riassunto il suo pensiero leggendo il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione Italiana. Il quale dice così: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Monsignor Zuppi dice che questo articolo non è per niente rispettato dalla politica e dal potere. E dice che parlare di “merito” prima che questo articolo abbia ottenuto di essere rispettato è cosa senza senso. Perché si può parlare di prevalenza del merito solo in una società che abbia assicurato non dico l’eguaglianza, ma quanto meno la compatibilità tra le condizioni di partenza del giovane e della persona che si presenta alla gara sociale. Ebbene – ha osservato Zuppi, leggendo il rapporto della Cariplo – queste condizioni di partenza sono sempre più lontane. Perché il rapporto della Cariplo ci informa che negli ultimi venti anni (anzi, 18) la povertà in Italia è quasi triplicata. Cioè, per essere precisi, non è aumentata la povertà, è aumentato il numero dei poveri che è passato da un po’ meno di due milioni nel 2005 (1 milione e 900 mila) a oltre 5 milioni e mezzo oggi. È un dato sconcertante.

Anche la ricchezza, naturalmente, è aumentata, ma è aumentato anche il tasso della sua concentrazione. Non è aumentato, cioè, di molto il numero dei ricchi, perché gli ascensori sociali sono fermi, ma è aumentata la quantità della ricchezza concentrata in poche mani. Questa ricchezza, evidentemente, è stata sottratta alla parte più debole della popolazione. E così monsignor Zuppi ha posto sul tappeto un tema del quale da tanto, tanto tempo non si parla più: l’uguaglianza. Parola magica e maledetta, che – appunto – è scritta anche nella Costituzione, ma che da diverso tempo, qui in Italia (ma forse in tutto l’occidente), è stata scritta nel libro nero delle parole proibite. Il concetto di uguaglianza è stato equiparato all’idea della società comunista, che appiattisce le differenze, e quindi cancella l’iniziativa privata, e quindi abbatte la produzione di ricchezza, la concorrenza, il mercato, e alla fine anche il pluralismo e le diversità culturali. E dunque la libertà. E dunque è un male.

Ma forse l’uguaglianza della quale parla Zuppi non è esattamente questo. Cioè, non è un motore della dittatura e dell’autoritarismo. È solo la legittima aspirazione ad avere una società popolata da donne e uomini, vecchi e giovani, molto diversi tra loro sul piano culturale, etico, e anche economico, pienamente liberi, ma che vivono in uno Stato che garantisce a tutti – tutti – di vivere in condizioni di dignità, di serenità, di non indigenza. Non credo che Zuppi ambisca a radere al suolo il mercato. Forse però immagina un mercato che disponga della distribuzione delle ricchezze, ma con dei limiti che sono poi limiti naturali: e cioè non abbia il diritto di far funzionare i propri meccanismi alimentandosi con la povertà di un settore minoritario ma consistente della società.

Tutto qui. Niente di straordinario. Si tratta semplicemente di stabilire una griglia di diritti che permetta l’esprimersi della libera concorrenza ma senza porre la libera concorrenza al di sopra dei diritti individuali e collettivi. Non c’è bisogno di ricorrere a Marx, a Lenin. a Gramsci: basta scorrere i testi di alcuni discorsi e scritti di un papa mite e moderato come Giovanni Battista Montini, cioè Paolo VI. Il quale nel 1967 scrisse un’enciclica molto famosa, che fu stampata in centinaia di migliaia di copie in un libricino esile e con la copertina di cartoncino giallo, intitolata Populorum progressio. In questa enciclica era possibile leggere la seguente frase (oggi assolutamente scandalosa): “La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario.“

Dopo quella enciclica nel nostro paese ci fu effettivamente una spinta a ridurre, attraverso il riformismo, le diseguaglianze e a ridurre anche la povertà. Negli ultimi trent’anni quella tendenza si è invertita: mentre l’Italia cresceva sul piano della sue ricchezze, le diseguaglianze, anziché diminuire ed attenuarsi, sono aumentate fino a raggiungere il livello attuale che è assolutamente insopportabile e che ci porta molto lontano dalla Costituzione. Quali sono le cause di tutto questo?, si è chiesto monsignor Zuppi. Io penso di poter dire una cosa lapalissiana. Il motivo di questa degenerazione è stato il rovesciarsi dei rapporti di forza in politica. Fino agli anni Ottanta la politica italiana era bilanciata dalla contrapposizione e dalla lotta tra una borghesia, in parte illuminata e moderna, e una classe operaia (un movimento operaio) molto forte sia sul piano numerico e sociale sia su quello della sua rappresentanza politica. Il sindacato era un pilastro dell’architettura sociale.

La sinistra godeva di un eccezionale prestigio e di una forte capacità di influenza sul potere politico e persino su settori importanti dello schieramento conservatore. In questo clima tutte le riforme che furono realizzate furono riforme che non avevano come scopo essenziale quello di rendere più libero il capitalismo, ma quello di migliorare le condizioni economiche di vita, e i diritti, delle classi più deboli.
A metà degli anni Ottanta, e poi soprattutto nei Novanta, la situazione si capovolge. Il riformismo diventa uno strumento per chi vuole ridurre i diritti dei più deboli, e immagina che l’interesse del paese, quindi l’interesse generale, coincida con l’interesse delle classi dominanti e sia del tutto subalterno alle necessità del sistema produttivo.

Paolo VI è morto da molto tempo. Le tendenze sociali della Chiesa, con Wojtyla e poi con Ratzinger, si rinsecchiscono, e si avvitano tuttalpiù nel caritatismo. Il movimento operaio scompare, la borghesia illuminata lascia al suo posto la borghesia conservatrice, la sinistra – che aveva sprigionato per due decenni la sua egemonia politica – si inchina al liberismo e al giustizialismo. Il liberismo e il giustizialismo diventano i padroni dell’intera macchina politica. Piegandola ai propri interessi o al proprio fondamentalismo. Il giustizialismo prende il posto della lotta sociale, danneggiando pesantemente l’economia, ma senza nessun vantaggio per la giustizia sociale. L’assalto alla politica (alla Casta, come viene definita con disprezzo dalla stampa borghese) porta immediatamente a una riduzione della democrazia, e dunque del conflitto, e dunque del potere dei ceti più deboli.

In queste condizioni, ogni crisi economica si scarica interamente sugli ultimi. E questa discesa sociale è accompagnata dalla nuova ideologia della destra, costruita tutta sulla caccia agli ultimi che vengono contrapposti ai penultimi e cioè al ceto medio. La costruzione di una forte opinione pubblica xenofoba e in parte razzista è parte integrante di questa operazione politica, alla quale la sinistra, sbandata, non sa rispondere. Balbetta. Talvolta denuncia. Rinuncia al conflitto, si affida alla magistratura.

Nasce così il crollo di civiltà al quale assistiamo. E che ha portato al trionfo della destra radicale, che oggi ha conquistato il governo, e al degrado sociale denunciato dalla Cariplo. Non credo che si possa porre riparo a questa frana, senza una ripresa della sinistra, e un suo ritorno al pensiero e all’azione. La Chiesa fa quel che può. Rabbercia qualche squarcio. Non può fare di più.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all’Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

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