1. Premessa
La disciplina delle perquisizioni personali e locali trova il proprio fondamento negli art. 13 e 14 della Costituzione repubblicana.
In particolare, l’art. 13 Cost., dopo avere sancito l’inviolabilità della liberà personale, prevede che ogni forma di limitazione della libertà personale – compresa quella insita nelle ispezioni e nelle perquisizioni personali – possa essere disposta solo con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». A tale principio può derogarsi unicamente «in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».
Le garanzie e le forme ivi previste sono, poi, richiamate dall’art. 14 Cost. che, dopo avere sancito l’inviolabilità del domicilio, ribadisce che non si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri domiciliari “se non nei casi e modi stabiliti dalla legge” e “secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale”.
Dunque, l’intrusione nella sfera delle libertà del singolo è coperta dalla riserva di legge, – che rimette al Legislatore l’individuazione tassativa dei casi in cui essa è consentita – e dalla riserva di giurisdizione, che attribuisce all’autorità giudiziaria, salvo i casi eccezionali di necessità ed urgenza ( nei quali può intervenire l’autorità di pubblica sicurezza), il potere di adottare provvedimenti invasivi o limitativi.
L’ipotesi principale che, in base alla legge ordinaria, autorizza l’intervento eccezionale, di iniziativa delle forze di polizia è quella della flagranza di reati.
Più in generale, i presupposti per procedere alle perquisizioni c.d. di polizia giudiziaria sono racchiusi nell’art. 352 c.p.p., che legittima gli ufficiali di polizia giudiziaria a procedere nella flagranza del reato [art. 382 c.p.p] o nel caso di evasione [art. 385 c.p.], a perquisizione personale o locale, quando hanno fondato motivo di ritenere che sulla persona si trovino occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse ovvero che tali cose o tracce si trovino in un determinato luogo o che ivi si trovi la persona sottoposta alle indagini o l’evaso.
In queste ipotesi, alle perquisizioni di iniziativa della P.G., quali mezzi di ricerca del corpo del reato o di altri oggetti che al reato ineriscono possono procedere, ai sensi dell’art. 352 c.p.p., gli “ufficiali di P.G.”.
Possono, tuttavia, provvedere anche gli “agenti di P.G.” nei soli casi di particolare necessità e urgenza ex art. 113, D.lgs. n. 271/1989 ( disp. att. cod. proc. pen.).
Norme speciali hanno ampliato i casi nei quali la polizia giudiziaria può procedere di iniziativa a perquisizioni, al di fuori della flagranza di reato.
Dal quadro ordinamentale si ricava, infatti, che – accanto alle le perquisizioni c.d. di polizia giudiziaria testé descritte (connesse a finalità repressive perché, intervenendo dopo la commissione di un fatto, sono dirette all’accertamento di un reato, allo scopo di individuare l’autore e di impedirne l’aggravamento) – possono essere eseguite di iniziativa dalle forze dell’ordine delle perquisizioni aventi finalità preventiva, che possono essere compiute tanto da “ufficiali”, quanto da “agenti” di polizia giudiziaria, per l’espletamento di una attività di pubblica sicurezza e di vigilanza diretta ad impedire il verificarsi di fatti che mettano in pericolo la collettività.
In particolare, si tratta delle ipotesi previste dall’art. 4 della Legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), che consente, in casi eccezionali di necessità e urgenza, la perquisizione sul posto, per la ricerca di armi e strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento o la cui presenza non appaiano giustificabili, in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo.
La disciplina appena esposta si applica, per espresso richiamo dell’art. 4 L. 152/75, anche alle perquisizioni eseguite dai militari delle FF.AA. (a disposizione dei Prefetti), nell’ambito di operazioni di sicurezza e controllo del territorio, per la prevenzione dei delitti di criminalità organizzata e, in particolare, all’accertamento dell’eventuale possesso di armi, esplosivi al fine specifico di prevenire o impedire comportamenti che possono mettere in pericolo l’incolumità delle popolazioni, la sicurezza dei luoghi o delle infrastrutture.
Vi è poi la fattispecie delineata dall’art. 41 del Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), che permette la perquisizione domiciliare per la ricerca delle armi della cui esistenza, in locali pubblici o privati, la polizia abbia notizia, anche per indizio.
Alle perquisizioni fin qui esaminate, può essere assimilata quella compiuta per il “Contrasto della immigrazione clandestina” (art. 12 comma 7, Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286).
I presupposti delle operazioni di polizia in corso e della particolare necessità o urgenza accomunano la tipica perquisizione sul posto alle perquisizioni per la “prevenzione e repressione del traffico di sostanze stupefacenti”.
E’ la perquisizione, sia personale che locale, che gli U.P.G. (e non anche l’Agente) possono compiere per ricercare “sostanze stupefacenti o psicotrope” ai sensi delle disposizioni contenute all’art. 103 T.U. approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). I commi 2 e 3 del citato art. 103 abilitano, infatti, la polizia giudiziaria a procedere – nel corso di operazioni finalizzate alla prevenzione e alla repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – rispettivamente, all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, e a perquisizioni, personali e domiciliari, allorché vi sia «fondato motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali sostanze e ricorrano, altresì – nel caso delle perquisizioni – «motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente».
Di tutte le operazioni di perquisizione deve sempre e comunque essere data notizia, entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica, il quale le convalida nelle quarantotto ore successive, sempre che ne sussistano i presupposti.
2. Le novità legislative introdotte dalla riforma Cartabia
Il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, entrato in vigore il primo gennaio 2023, agli articoli 12 e 17, comma 1, lett. d), ha introdotto una nuova disciplina in materia di perquisizioni negative, istituendo un controllo giurisdizionale, non solo nei casi in cui la perquisizione sia stata eseguita sulla base di un decreto emesso dal pubblico ministero (art. 252-bis cod. proc. pen.), ma anche nei casi di perquisizione effettuata di iniziativa dalla polizia giudiziaria, convalidata entro le successive 48 ore dal pubblico ministero (art. 352, comma 4 bis, cod. proc. pen.).
In altri termini, il Legislatore ha istituito un apposito rimedio, azionabile – dinnanzi al giudice per le indagini preliminari – esclusivamente per le perquisizioni con esito negativo, posto che, ove sia intervenuto il sequestro, l’interessato potrà far valere le proprie doglianze nel procedimento di riesame, previsto dagli articoli 324 ss. cod. proc. pen., per le misure cautelari reali.
La ratio dell’intervento normativo, per come si evince nella relazione finale della Commissione di Studio Lattanzi, istituita presso l’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia è quella di “colmare un vuoto di tutela dell’ordinamento processuale penale italiano, messo in luce dalla Corte di Strasburgo (Corte Edu, sez. I, 27 settembre 2018, BRAZZI c. Italia), la quale ha ritenuto l’Italia responsabile per aver violato l’art. 8, par. 2 CEDU, in una fattispecie in cui il ricorrente si era lamentato di non aver potuto beneficiare di alcun controllo giurisdizionale preventivo o a posteriori nei confronti di una perquisizione disposta in indagini a seguito della quale non era stato sequestrato alcun bene”.
Il nuovo art. 252-bis cod. proc. pen. introdotto dall’art. 12 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 è rubricato “Opposizione al decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero” ed è stato modulato sulla falsariga di quanto già previsto con riguardo al altro mezzo di ricerca della prova, ossia al sequestro: come è noto, infatti, nel corso delle indagini preliminari, sulla restituzione dei beni posti in sequestro provvede il P.M. con decreto motivato, contro il quale gli interessati possono proporre opposizione al giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’art. 263, comma 5, c.p.p.
Orbene, l’art. 252 – bis cod. proc. pen. così dispone:
“1. Salvo che alla perquisizione sia seguito il sequestro, contro il decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e la persona nei cui confronti la perquisizione è stata disposta o eseguita possono proporre opposizione, sulla quale il giudice provvede a norma dell’articolo 127.
2. L’opposizione è proposta, a pena di decadenza, entro dieci giorni dalla data di esecuzione del provvedimento o dalla diversa data in cui l’interessato ha avuto conoscenza dell’avvenuta perquisizione.
3. Il giudice accoglie l’opposizione quando accerta che la perquisizione è stata disposta fuori dei casi previsti”.
Dunque, i soggetti legittimati a proporre opposizione al decreto del P.M. di convalida della perquisizione con esito negativo sono:
– la persona nei cui confronti la perquisizione sia stata disposta o eseguita
– e, anche se diversa, la persona sottoposta a indagini (ma solo qualora abbia un concreto interesse a far valere l’illegittimità dell’atto, secondo il principio generale dettato dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen.).
Il termine per proporre opposizione è dieci giorni e decorre dall’esecuzione del provvedimento o dalla diversa data in cui l’interessato abbia avuto conoscenza dell’avvenuta perquisizione.
Analogo rimedio, con le medesime forme e nei medesimi termini, può essere azionato avverso il decreto motivato con il quale il pubblico ministero abbia convalidato la perquisizione negativa, eseguita d’iniziativa dalla polizia giudiziaria.
Al riguardo, giova premettere, la nuova formulazione dell’art. 352, comma 4, cod. proc. pen., superando le precedenti questioni interpretative, prevede espressamente che la convalida della perquisizione effettua di iniziativa dalla P.G. debba avvenire “con decreto motivato” del P.M.
A seguire, il comma 4 bis dell’art. 352 cod. proc. pen. – introdotto ex novo dall’art. 17, comma 1, lett. d), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – estende al decreto motivato di convalida della perquisizione negativa il rimedio previsto già dall’art. 252 bis cod. proc. pen. per il decreto di perquisizione emesso dal P.M.:
«4-bis. Salvo che alla perquisizione sia seguito il sequestro, entro dieci giorni dalla data in cui hanno avuto conoscenza del decreto di convalida, la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e la persona nei cui confronti la perquisizione è stata disposta o eseguita possono proporre opposizione, sulla quale il giudice provvede a norma dell’articolo 127. Si applica la disposizione di cui all’articolo 252-bis, comma 3».
Il tenore della disposizione impone di ritenere che il pubblico ministero debba emettere decreto motivato anche nel caso in cui non convalidi la perquisizione della P.G.: in tal caso, tuttavia, è evidente che l’atto non potrà essere impugnato, venendo meno l’interesse ad adire il giudice per le indagini preliminari per far valere un’illegittimità già acclarata.
Va da sé che, al fine di evitare la non convalida della perquisizione negativa da parte del P.M., la polizia giudiziaria dovrà inserire nel processo verbale della perquisizione operata di iniziativa una succinta motivazione, che comprenda di verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti e d individuare le ragioni sottese al compimento dell’atto, consentendo al P.M. di valutare la sussistenza dei presupposti normativi.
Così, ad esempio, nel caso di perquisizione sul posto ex art. 4 della Legge 22 maggio 1975, n. 152, per la ricerca di armi e strumenti di effrazione, sarà sufficiente indicare le ragioni per le quali l’atteggiamento del soggetto perquisito è stato ritenuto sospetto e specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo, che hanno indotto la P.G. a procedere.
Sull’opposizione avverso il decreto di convalida emesso dal P.M. decide, in camera di consiglio, il giudice per le indagini preliminari, che la accoglie ove accerti che la perquisizione è stata disposta «fuori dei casi previsti dalla legge»: dunque, i vizi deducibili con l’opposizione sono esclusivamente quelli che attengono ai presupposti sostanziali previsti dalla legge per l’effettuazione della perquisizione, gli unici in assenza dei quali l’ingerenza nelle libertà del singolo può definirsi illegittima.
Preme evidenziare che il d.lgs. n. 150 del 2022 non ha previsto alcuna disposizione transitoria in relazione al nuovo strumento di controllo giurisdizionale sulla legittimità della perquisizione: le disposizioni trovano immediata applicazione fin dal giorno di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022 (il 1 gennaio 2023), anche in relazione alle perquisizioni effettuate in epoca precedente, salvo l’integrale decorso del sopra indicato termine decadenziale.
Occorre domandarsi cosa accade in caso di accoglimento – da parte del giudice – dell’opposizione alla perquisizione negativa.
Orbene, l’art. 252-bis, comma 3, cod. proc. pen. lascia intendere che il provvedimento di accoglimento rimane privo di conseguenze concrete: in proposito, nella Relazione illustrativa si evidenzia che la soluzione individuata è stata «calibrata in modo da soddisfare pienamente l’interesse dell’opponente all’accertamento dell’illegittimità della perquisizione subìta, senza tuttavia sfociare nell’invalidazione processuale del decreto oggetto di opposizione (e/o delle relative risultanze)». Ciò in coerenza con l’univoco orientamento giurisprudenziale in base al quale l’illegittimità dell’atto di perquisizione compiuto ad iniziativa della polizia giudiziaria non comporta effetti invalidanti sul successivo sequestro del corpo del reato, o delle cose pertinenti al reato, che costituisce un atto dovuto a norma dell’art. 253, comma 1, cod. proc. pen.; né effetti invalidanti sulla utilizzabilità del medesimo atto in funzione probatoria.
Alla stregua di tale indirizzo deve ritenersi che il verbale di perquisizione negativa, nonostante la ritenuta illegittimità, possa conservare profili di utilizzabilità, ad esempio in relazione alla descrizione dello stato dei luoghi operata dal verbalizzante, ovvero alla documentazione di ciò che è avvenuto in sua presenza durante le fasi dell’esecuzione.
Ciò, del resto, si legge anche nella relazione n. 2/2023, pubblicata il 5 gennaio 2023 dall’Ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione – Servizio Penale.
In proposito, merita approfondimento la recente questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3, 13, 14 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – nella parte in cui la disposizione in argomento, secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, «non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori – ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato – degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’[autorità giudiziaria] con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività».
L’art. 191 cod. proc. pen. è una disposizione cardine del sistema processuale, poiché introduce l’istituto dell’inutilizzabilità, sancendo il principio secondo il quale è preclusa la possibilità di utilizzare prove assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge.
Giova premettere che, a differenza di quanto accade per le ipotesi di radicale nullità degli atti – che secondo quanto previsto dall’art. 185 cod. proc. pen. “rende invalidi anche gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo”, c.d. invalidità derivata – l’art. 191 cod. proc. pen., nel prevedere il divieto di utilizzazione delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non prevede alcun regime di inutilizzabilità derivata.
La questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata inammissibile con sentenza nr. 219/2019, nella quale la Consulta ha evidenziato come il petitum del giudice remittente fosse fondato su una “richiesta fortemente manipolativa”, in un materia – come quella processuale – nella quale più volte è stata riconosciuta l’ampia discrezionalità del Legislatore (sentenze della Corte Costituzionale n. 23 del 2016 e n. 277 del 2014; ordinanze n. 254 e n. 122 del 2016), pretendendo di desumere l’automatica inutilizzabilità degli esiti del sequestro, attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti, in ragione di una ritenuta non congruità dell’apparato di motivazioni esibito dalla polizia giudiziaria a corredo degli atti in questione.
Già in numerose occasioni è stata dichiarata l’inammissibilità di questioni rispetto alle quali il giudice rimettente chiedeva una pronuncia additiva, che implicasse una modifica «rientrante nell’ambito delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 45 del 2018).
Peraltro, anche nell’ordinanza n. 332 del 2001 la Corte Costituzionale aveva dichiarato la manifesta inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’art. 41 t.u. pubblica sicurezza e l’art. 191 cod. proc. pen., quest’ultimo censurato, in riferimento all’art. 24 Cost., «nella parte in cui tale disposizione – alla luce, anche, della interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità – consente la utilizzazione di prove che derivano, non solo in via diretta, ma anche “in via mediata”, da un atto posto in essere in violazione di divieti, e, in particolare, nella parte in cui consente l’utilizzazione del risultato di una perquisizione nulla».
La Consulta pervenne, alla declaratoria di inammissibilità delle questioni proprio perché basate su una interpretazione che «finisce per confondere fra loro fenomeni – quali quelli della nullità e dell’inutilizzabilità – tutt’altro che sovrapponibili, mirando in definitiva il rimettente a trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema delle nullità»: richiedendo, con ciò, alla Corte l’esercizio «di opzioni che l’ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di più, che – quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra gli atti probatori – ammette, già sul piano logico, un’ampia varietà di possibili configurazioni e alternative».
Affermazioni, queste, che assumono un risalto ancor più specifico allorché, vengano in rilievo disposizioni come l’art. 191 cod. proc. pen. “di carattere eccezionale” (in quanto strutturalmente derogatorie rispetto alla opposta, ordinaria, regola), quali istituti che sanciscano divieti probatori e clausole di inutilizzabilità processuale, vigendo in materia un rigoroso regime di tipicità e tassatività.
Nella sentenza 219/2019 è stata sintetizzata la tesi del giudice rimettente (secondo la quale la illegittimità della perquisizione dovrebbe condurre – come soluzione costituzionalmente imposta – alla “inutilizzabilità” del sequestro del corpo del reato, secondo la nota teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”), che rinverrebbe la propria ragion d’essere nella circostanza che l’art. 191 cod. proc. pen. svolgerebbe una funzione di tipo “politico costituzionale”, in quanto mirerebbe ad assicurare una effettiva tutela ai valori costituzionali coinvolti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova attraverso lo strumento della inutilizzabilità dei relativi risultati: grazie a tale divieto di utilizzabilità – sostiene il giudice rimettente – che si «scoraggeranno e disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con modalità illegali (e talora francamente illecite), che violano i diritti costituzionali al cui presidio sono appunto posti i divieti rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali».
Ma in questa prospettiva, la stessa ratio delle censure – volte a rendere automaticamente “contaminata” la utilizzabilità del sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita fuori dai casi consentiti dalla legge – finisce ineluttabilmente per coinvolgere scelte di “politica processuale” che la stessa Costituzione riserva al Legislatore.
In sostanza, il giudice rimettente, dichiaratamente, vuole raggiungere, attraverso la pronuncia additiva e manipolativa della Corte Costituzionale, l’obiettivo di disincentivare gli abusi (o quelli che lui ipotizza esser tali) rendendo gli abusi stessi “non paganti” sul piano processuale, attraverso un passaggio che estende ad un atto in sé valido (il sequestro) la illegittimità (e inutilizzabilità) di quello che ne costituisce la occasione (la perquisizione ed ispezione).
Tutto ciò, d’altra parte, è reso particolarmente evidente dallo stesso tenore del quesito enunciato nel dispositivo delle ordinanze di rimessione, ove viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esi ti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla p.g. fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’A.G. con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività».
La richiesta di addizione, dunque, non soltanto mira ad introdurre un nuovo caso di inutilizzabilità di ciò che l’ordinamento prescrive come attività obbligatoria (il sequestro del corpo del reato), ma si propone altresì di introdurre, ex novo, uno specifico divieto probatorio, sancendo la inutilizzabilità delle dichiarazioni a tal proposito rese dalla polizia giudiziaria nel processo verbale: preclusione, quest’ultima, che si colloca in posizione del tutto eccentrica rispetto al tema costituzionale coinvolto dagli artt. 13 e 14 Cost. che, come specificato in premessa, impongono una chiara riserva di legge.
Peraltro, come innanzi evidenziato, nel nostro ordinamento giuridico, esiste già una diversa previsione che opera nel campo delle nullità ed è rappresentata dall’art. l’art. 185 comma 1 c.p.p., a norma del quale la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo: ad esempio, qualora l’inosservanza delle disposizioni in materia di perquisizione implicasse una violazione di valori di rango costituzionale, quali ad esempio i diritti difensivi, la perquisizione dovrebbe reputarsi radicalmente nulla, con conseguente propagazione, in tal caso, dell’invalidità al sequestro della fonte di prova così appresa, viziando gli elementi di prova dalla stessa eventualmente ottenuti.
Ed è pacifico, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina, l’assunto secondo il quale l’istituto della inutilizzabilità abbia vita totalmente autonoma rispetto al regime ed alla natura giuridica delle nullità, non essendo anzi mancati tentativi definitori che hanno fatto riferimento ad una ipotesi di «difetto funzionale della “causa” dell’atto probatorio, vale a dire come una inidoneità dell’atto stesso a svolgere la funzione che l’ordinamento processuale gli assegna» (Cass., sez. un., n. 13426 del 2010).
Un simile “vizio”, peraltro, risponde anch’esso – al pari delle nullità – ai paradigmi della tassatività e legalità, dal momento che è soltanto la legge a stabilire quali siano – e come si atteggino – i diversi divieti probatori.
Infine, è lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione secondo la quale, per la inutilizzabilità che scaturisce dalla violazione di un divieto probatorio, non possa trovare applicazione un principio di “inutilizzabilità derivata”, sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall’art. 185, comma 1, cod. proc. pen., a norma del quale «la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo».
Derivando il divieto probatorio e la conseguente “sanzione” della inutilizzabilità da una espressa previsione della legge, qualsiasi “estensione” di tale regime ad atti diversi da quelli cui si riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una, altrettanto espressa, previsione legislativa. Del resto, è ricorrente in giurisprudenza l’affermazione secondo la quale tale principio, valido per le nullità, non si applica in materia di inutilizzabilità, riguardando quest’ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non quelle la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 settembre 2018-4 febbraio 2019, n. 5457).
Va da sé, peraltro – come osservato anche dalla Consulta – che l’obiettivo di disincentivare possibili “abusi” è comunque perseguito dall’ordinamento, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” che possa essere stata posta in essere dalla polizia giudiziaria, come d’altra parte espressamente affermato in varie occasioni dalla giurisprudenza di legittimità (ad esempio, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 aprile-25 maggio 2006, n. 18438).
Tutto ciò premesso, occorre soffermarsi brevemente sulla distinzione tra la perquisizione semplicemente illegittima e la perquisizione arbitraria, atteso che, solo in questo secondo caso, si configura il delitto contro la libertà personale previsto e punito dall’art. 609 cod. pen..
La citata disposizione stabilisce che: “il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue una perquisizione o un’ispezione personale, è punito con la reclusione fino ad un anno”.
Orbene, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 609 cod. pen., la perquisizione può ritenersi arbitraria solo nelle ipotesi di totale assenza dei requisiti necessari al compimento dell’atto o con modalità che fuoriescano totalmente da quelle ordinarie di esplicazione del pubblico potere, tali da connotare la condotta del deliberato proposito dell’ufficiale di eccedere le proprie attribuzioni, per finalità diverse da quelle attribuitegli in ragione dei suoi pubblici poteri.
Tali considerazioni valgono tanto per le perquisizioni disposte dal P.M., quanto per le perquisizioni eseguite di iniziativa dalla P.G.
A titolo esemplificativo si riporta il caso in cui la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto non idonea ad integrare il reato di cui all’art. 609 cod. pen., la condotta del pubblico ministero che, all’esito di un’udienza, aveva disposto la perquisizione di una borsa, immediatamente eseguita, sulla base di un “verbale di operazioni compiute”, contenente i requisiti di cui all’art. 103 cod. proc. pen., ma non motivato come richiesto dall’art. 247, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 5, sentenza n. 8031 del 15/12/2016 Ud. – dep. 20/02/2017; Sez. 1, sentenza n. 5414 del 2009 e Sez. 1 sentenza n. 16101 del 2016).
Del resto la sussistenza della fattispecie delittuosa della perquisizione arbitraria è speculare al riconoscimento della circostanza esimente di cui all’art. 393 bis cod. pen. (reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale): ai fini della configurabilità dell’esimente in questione, l’atto del pubblico ufficiale può ritenersi arbitrario allorché sia del tutto ingiustificato o persecutorio, ovvero abusivo e sproporzionato in relazione alla situazione nella quale il funzionario è chiamato a porlo in essere, ovvero quando, pur essendo sostanzialmente legittimo, sia incongruente rispetto alle modalità impiegate e alle finalità da perseguire, a causa della violazione dei doveri minimi di correttezza che devono caratterizzare l’agire dei pubblici ufficiali (Ad esempio, la Corte ha escluso l’esimente in relazione alla condotta violenta e minacciosa dell’imputato che, nel corso di una perquisizione personale, volta alla ricerca del portafogli sottratto ad uno dei militari che lo avevano tratto in arresto, veniva privato dei capi di abbigliamento onde verificare se occultasse indosso la refurtiva; Sez. 5, Sentenza n. 45245 del 25/10/2021 Ud. – dep. 09/12/2021 ).
Per contro, è configurabile l’esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza ad un pubblico ufficiale che pretende di eseguire presso il suo domicilio una perquisizione finalizzata, ai sensi dell’art.4 legge 22 marzo 1975, n.152, alla ricerca di armi e munizioni fondata su meri sospetti e non su dati oggettivi, sufficienti anche solo a livello indiziario, circa la presenza delle suddette cose nel luogo in cui viene eseguito l’atto (in tal senso, la Corte ha ritenuto immune da vizi la mancata convalida dell’arresto in relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale per essersi l’imputato opposto alla perquisizione disposta dopo la contestazione di una contravvenzione al codice stradale, senza che fossero emersi indizi significativi circa il possesso di armi, che legittimasse la perquisizione ai sensi dell’art. 4 L.152/1975: cfr. Sez. 6, Sentenza n. 40952 del 15/06/2017 Cc. – dep. 07/09/2017 ).
In definitiva, la perquisizione è illegittima quando non ricorra l’osservanza, da parte della P.G, dei presupposti legittimanti l’intrusione nella sfera privata ( ad esempio, pur in presenza di una condotta criminosa, difettano tuttavia le ragioni di urgenza che impediscano di attendere l’intervento dell’autorità giudiziaria, o ancora difetta il requisito della fragranza perché è trascorso un certo lasso di tempo dal momento della commissione del fatto, o perché l’atto è stato trasmesso al P.M. per la convalida oltre le 48 ore ecc..); assume, invece, carattere arbitrario allorquando la condotta si traduca in un vero e proprio comportamento abusivo e ingiustamente intrusivo, mediante il quale il pubblico ufficiale, consapevolmente e in modo deliberato ecceda dalle proprie attribuzioni (si pensi, ad esempio, ad un soggetto trattenuto e perquisito in totale assenza dei presupposti di legge correlati alla flagranza di un reato o al fondato sospetto – sia pure sotto il profilo indiziario – del possesso di armi, stupefacenti o strumenti di effrazione, o ancora al oggetto controllato e perquisito con modalità illegali, senza l’osservanza delle garanzie difensive o attraverso l’uso di violenza o minaccia).
Si tratterà di verificare, di volta in volta, se la condotta del pubblico ufficiale, sia il frutto di una mera illegittimità che porti alla non convalida dell’atto o sia, piuttosto, dovuta ad una forma di illegittimità ancor più radicale, tale da rendere l’atto radicalmente affetto da nullità e da arbitrarietà.