L’11 gennaio del 1996. Il corpo sciolto nell’acido. Lui che era un canuzzo, per quanto era leggero, e che ci disse, con l’ultimo fiato di voce che gli rimaneva: Ma mi state portando a casa? Fu come se prima del nostro definitivo inabissamento si fosse reso necessario un gesto supremo d’orrore puro, le fauci spalancate del mostro, poi il suo rapido indietreggiare, nascondersi.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l’ascesa dell’ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.
Più andavamo avanti, più Matteo ci appariva per quello che è: un vero, nuovo, capo. Lo capimmo quando ci convocò, in un’altra occasione. E c’erano tutti, Ferro, Gioè, gli altri. E, come sempre, siccome il tempo era poco, e i cani di mànnara che ci seguivano avrebbero potuto già fiutare i nostri passi, non si fece l’analisi di quello che era successo, non eravamo un circolo di dopolavoro né una sezione di partito, e Matteo come sempre non ci diceva tutto, ma solo il necessario.
E, in quell’occasione, il necessario era che bisognava eliminare alcuni agenti di polizia penitenziaria, che non se ne poteva più del modo in cui trattavano i nostri, perché sì, è vero, erano lontani i tempi dello champagne e delle buttane dentro il grand hotel Ucciardone, quando organizzavamo mangiate da fare restare a bocca aperta le guardie carcerarie, e ci tiravamo addosso le aragoste, ma una mezza misura ci voleva.
Arrivavano racconti agghiaccianti: chi si pisciava addosso per la paura, e non era nemmeno concessa la facoltà di cambiarsi, altri lasciati senza cesso, o con la luce sempre accesa, o senz’acqua, o prelevati di notte, e picchiati, e poi riportati in cella, come se nulla fosse. Lo stato era diventato improvvisamente cattivo con noi, e questo non andava bene.
Ci mancava, il carcere del passato, perché per noi non era solo la bella vita che serviva a irrobustire il mito sfacciato della nostra impunità: il carcere per noi era anche una specie di centrale per la diramazione degli ordini. A volte si trovavano insieme capi mandamento o capi famiglia, e da dietro le sbarre – si fa per dire – trovavano la quiete necessaria per gestire le proprie cose, dare compiti, ordinare omicidi.
A parte che poi, col tempo, ci siamo presi gioco anche della massima sorveglianza. I fratelli Graviano, ad esempio, sono stati dei maghi. Per dire, sono riusciti a mettere incinta le rispettive mogli nonostante la regola dei colloqui separati dal vetro. E poi, tutti a raccontare degli agi dell’Ucciardone, ma vedete che anche al carcere di Trapani il trattamento per noi era da cinque stelle. Se uno voleva parlare con Mariano Agate, ad esempio, quando era rinchiuso lì, veniva ricevuto da lui in una stanzetta appartata, in vestaglia elegante e pantofole che neanche un viceré o Don Raffaè, quello della canzone. E gli veniva offerto anche il caffè, e si discuteva con calma dei problemi che neanche al circolo nobili.
Quando si decise di posare Cola Buccellato, e fare capo della provincia Francesco Messina Denaro, la riunione dove fu fatta? In una cava? In un centro congressi? In campagna? No. Al carcere di Trapani. Cola Buccellato era lì, e Mariano Agate gli venne a fare visita per dirgli che l’avevano buttato fuori, dalla famiglia e da tutto. Mancava poco che lo buttavano pure fuori dal carcere… Ci vorrebbe un altro colpetto, disse qualcuno di noi, con gusto della citazione per il signor Riina e le sue ultime parole famose, adesso che era ospite dello stato e si era fatto muto, e rimaneva intoccabile anche in cella.
No, disse Matteo, stanno accadendo tante cose, e non sto qui a spiegarvele. Dobbiamo solo ammazzare qualche secondino. Io mi occupo di quelli della provincia di Trapani, i palermitani dei loro, e poi ci sono quattro agenti di Sciacca che ho chiesto a quelli di Agrigento di occuparsene. Ci diede incarico di individuare gli obiettivi, le guardie che davano legnate, e capire come agire. Poi di non fare nulla. Aspettare un suo cenno. […]. Tutto, potevamo fare tutto. E molto in effetti abbiamo fatto.
E ci sembrò pertanto di assecondare questa corrente quando decidemmo di eliminare gli agenti della polizia penitenziaria che avevano cominciato a comportarsi male con noi, a non portarci più rispetto, a picchiarci; anche per loro era venuto il momento della lezione, di fare capire chi comandava in Italia. E l’Italia era anche il metro quadrato delle celle dove avvenivano sevizie che ci facevano venire i brividi a raccontarle, umiliazioni che non erano cose di cristiani.
Che poi era facile prendersela con i poveretti tra noi che erano finiti nelle carceri, farli pisciare addosso, tenerli senza luce in cella, o addirittura al buio per giorni, negare un’ora d’aria o una coperta, accanirsi con piccoli velenosi dispetti. Era un modo di giocare sporco che non ci aspettavamo, e che aveva portato indignazione anche in quelli tra noi che erano più propensi al dialogo.
Ma quei secondini solo un linguaggio capivano, la violenza, ed era il linguaggio che noi, in quel momento, sapevamo usare meglio: una violenza forte, una violenza affamata, che infatti ci mangiò. Così era deciso: gli agenti sarebbero stati le nostre nuove vittime. A ottobre del 1992 uccidemmo a Porto Empedocle Pasquale Di Lorenzo, nel 1994 a Catania l’agente Luigi Bodenza. Tra loro c’era anche Giuseppe Montalto, che lavorava all’Ucciardone, a Palermo.
La sua eliminazione fu decisa durante una riunione a Salemi. Aveva intercettato un pizzino in carcere di Mariano Agate per uno dei fratelli Graviano, roba del genere. Fu ucciso per volere di Matteo con due colpi di fucile da caccia semiautomatico il 23 dicembre del 1995, mentre era in auto con moglie e figlia.
E fu Matteo a organizzare tutto con la saggezza ormai del capo, e la meticolosità di chi non lascia nulla al caso, non solo nei preparativi, ma anche nella data: il 23, ci diceva, tutto deve essere fatto il 23, l’antivigilia, così i picciotti in carcere si sarebbero fatti il Natale più allegro. E così fu. Bisogna aspettare il 1998 per l’assassinio, a Palma di Montechiaro, di Antonino Condello. Non ci riuscì di uccidere Balduccio Di Maggio, che si era buttato pentito, ed era stato lui, di fatto, a dare le informazioni per arrestare Totò Riina. Viveva in una località segreta, come tutti i collaboratori di giustizia. […].
Così come non ci riuscì l’attentato a Salvatore Contorno, che stava da anni a Formello, nel Lazio, a farsi in quel borgo la vita sua con moglie e figlio, a tipo che era una puntata di Linea Verde. Non meritava la pace, Contorno, che aveva detto che eravamo diventati una banda di vigliacchi e di assassini, e che noi eravamo i veri pentiti di Cosa nostra, perché avevamo cambiato tutto. Girava tranquillo e senza scorta.
Potevamo ucciderlo con un colpo di lupara, ma anche lì fu deciso che la sua morte doveva essere una cosa eclatante, perché troppi danni ci aveva fatto. Contorno doveva essere dilaniato da una carica di settanta chili di esplosivo, un omicidio che doveva «fare rumore». E vicino casa sua, in un canale di scolo, avevamo messo dell’esplosivo. Non te lo vanno a scoprire i carabinieri? La bomba esplode e lascia un cratere di cinque metri. E un nuovo indirizzo per Contorno.
E sempre sul finire del 1993 avvenne un altro fatto, per noi importante e doloroso, che fu il sequestro di Giuseppe Di Matteo, che era un bambino, il figlio di Santino Mezzanasca. Lo conoscevamo bene, qualcuno lo aveva anche visto crescere. E infatti non fu un rapimento vero e proprio, non ci fu bisogno della forza.
Lo chiamammo, e lui venne, con la scusa che lo portavamo a fare un giro, magari a insegnargli a fare barchette di carta da fare galleggiare nei canali di scolo ancora pieni dell’acqua, che aveva piovuto in quei giorni. Ci conosceva, si fidava. Ci voleva bene. E ci continuò a volere bene pure durante i giorni della sua lunga prigionia, quando eravamo convinti che per liberarlo il padre, che si era buttato pentito, non avrebbe detto tutto quello che sapeva sulla strage di Capaci.
Invece il padre non si fermava: parlava, parlava, parlava. E Giuseppe ci voleva bene, anche quando era diventato tipo un canuzzo pelle e ossa, che lo facevamo spostare da cantina a cantina, in posti segreti, sempre più bui, nel nostro territorio, in cave e luoghi che avevamo messo a disposizione di Matteo – prima a Castellammare del Golfo, poi a Campobello di Mazara, poi in una frazione di Custonaci che si chiama Purgatorio e che sembrava l’anticamera dell’inferno. Sì, perché poi abbiamo dovuto ucciderlo, il bambino – le mani che affondavano in quel collo di burro –, l’11 gennaio del 1996, il corpo sciolto nell’acido.
Lui che era un canuzzo, per quanto era leggero, e che ci disse, con l’ultimo fiato di voce che gli rimaneva: Ma mi state portando a casa? Fu come se prima del nostro definitivo inabissamento si fosse reso necessario un gesto supremo d’orrore puro, le fauci spalancate del mostro, poi il suo rapido indietreggiare, nascondersi.
Perché noi eravamo questo: divoratori di mondi, e di bambini. E nel sacrificio del piccolo Giuseppe si realizzava la nostra dannazione, e capimmo che sognavamo di essere portati via dal mare perché la nostra condanna era proprio questa: eravamo dei non morti, destinati a non annegare mai. Galleggiavamo. Galleggiavamo tutti.
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