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I nostri bisnonni in guerra avevano capito che il fucile in mano va maledetto

Pubblichiamo un inedito dell’autore, sceneggiatore e regista sloveno Goran Vojnović, pubblicato in italiano da Keller editore.

Il mio bisnonno Leon Obleščuk, ucraino di Galizia, all’inizio del XX secolo, quando era un bambino di dieci anni, si trasferì con la famiglia in Bosnia-Erzegovina; qualche anno dopo si ritrovò in Slovenia a sparare contro gli italiani vestito dell’uniforme dell’esercito austriaco, insieme a un gruppo di giovani bosniaci. Tale era la semplicità del mondo cento anni fa, molto prima che in Bosnia i bosniaci si mettessero a sparare ai bosniaci, e a questo punto nessuno ci ha capito più niente.

A volte mi chiedo quale fosse lo stato d’animo del mio bisnonno, quando – sdraiato in un fosso fangoso da qualche parte lungo l’Isonzo con indosso l’uniforme della potente monarchia austro-ungarica – ascoltava fischiargli  intorno i proiettili italiani. Raffiguro poi me stesso, da qualche parte lontano dalla mia casa slovena, forse proprio in Galizia, vicino al villaggio natale del mio bisnonno, in un’uniforme decorata con stelle gialle, in paziente attesa che mi atterri sulla testa una bomba russa; e cadere così da eroe nella lotta per Ursula von der Leyen, per la libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone, per l’alterità e l’uguaglianza, per il settimo articolo del Trattato di Lisbona, per la Banca centrale europea e il Fondo europeo di sviluppo.

Me stesso in guerra

Nella Lubiana di oggi mi è difficile immaginare me stesso in guerra, ma comunque sia, credo che mi sentirei un idiota. E qualcosa mi dice che alla prima tregua mi alzerei, maledirei ad alta voce l’idiota che mi ha infilato un fucile in mano sbattendomi in quella merda gelata, manderei a quel paese sia l’Europa unita che la Russia, prenderei mentalmente congedo da Eurovision, Ermitage, bamboline russe ed Eurocrem e filerei dritto in Madagascar.

Così farei io, molto probabilmente, ben sapendo com’è andata a finire la faccenda iniziata a Sarajevo più di cento anni fa, e sapendo anche che alla fine non è crollato solo ciò per cui aveva combattuto il mio bisnonno, ma anche ciò per cui ben venti anni dopo avrebbe combattuto suo figlio, mio nonno, Vladimir Obleščuk. La storia mi ha insegnato che sia il mio bisnonno che mio nonno hanno combattuto invano, anche se il mio bisnonno Leon la sua guerra l’ha persa e mio nonno Vladimir ha vinto la sua.

Ma non che io sia un euroscettico, vorrei che fosse chiaro. In effetti, l’idea di un’Europa unita continua a piacermi immensamente, malgrado tutte le crisi finanziarie, migratorie e sanitarie. Mi piace anche l’idea originaria di uno stato comune degli Slavi meridionali e non credo che neppure l’Impero austro-ungarico, per il quale il mio bisnonno Leon ha rischiato di morire, fosse da buttar via.

Se per miracolo fosse sopravvissuto, sono sicuro che nell’epoca attuale sarebbe un luogo perfettamente decente in cui vivere, e non ci sarebbe niente di tragico se oggi, invece che davanti al commissario Ursula, ci genuflettessimo davanti all’imperatrice asburgica, e invece che a Bruxelles la sede del trono si trovasse a Vienna. Ma per quanto ami il mio paese, morire per esso è ai miei occhi un concetto superato e fuori moda.

Oggi noi cittadini facciamo il tifo per il nostro paese al massimo quando la squadra nazionale gioca alla Coppa del Mondo, ma invece che sparare a sconosciuti, esprimiamo il nostro patriottismo postando su Instagram foto di Pirano, Bled e delle Grotte di Postumia.

I nostri eroi

E quando la nostra squadra viene eliminata ai Mondiali, tifiamo per i tedeschi perché alla fine vincono sempre loro, e nonostante la sconfitta, accogliamo i nostri ragazzi come eroi, perché ci hanno fatti conoscere nel vasto mondo diffondendo le bellezze di Pirano, Bled e delle Grotte di Postumia.

Ma è proprio a causa della miscela di conformismo, codardia e patriottismo pacifista che ha plasmato il mio atteggiamento nei confronti della guerra e della pace che ammetto la possibilità che il mio bisnonno Leon, quando offrì la sua giovane vita per il futuro della monarchia asburgica e si scagliò a capofitto contro l’Italia, potesse essere restio a pronunciarsi sulla saggezza di ciò che stava facendo come lo sono io oggi.

Sono infatti convinto che il giovane Leon Obleščuk – soldato austro-ungarico, nato da padre ucraino e madre ucraino-polacca in Galizia e cresciuto in Bosnia – nelle trincee fangose lungo l’Isonzo si sia reso conto di quanto dannatamente intelligente fosse stato suo padre, il mio trisavolo Peter Oblesščuk, quando si eclissò in un Brasile lontanissimo alla faccia dell’erede europeo al trono e dei suoi assassini. Mi sembra di sentirlo, il giovane soldato Leon, maledire la monarchia e l’annessione della Bosnia, la riforma agraria e tutti i giri di valzer tra Bosanski Brod  e Metković, e pensare solo a come tirare fuori la sua giovane e innocente testa da questo inferno austro-italiano.

Perché Leon Obleščuk avrebbe dovuto essere più disposto a morire per il suo paese cento e più anni fa di quanto lo sia io oggi? Perché il mio bisnonno non avrebbe dovuto sapere quanto me che in Europa, fin dalla notte dei tempi, sono stati costruiti stati splendidamente concepiti, colorati ed estremamente complessi, che hanno reso la vita delle persone un po’ più facile e un po’ più amara, prima di disgregarsi in modo più o meno cruento? Perché Leon non dovrebbe sapere che questo è il loro inevitabile destino e che la gente sarebbe molto più felice se non vedesse l’estinguersi degli Stati come la fine del mondo e non accompagnasse necessariamente il crollo di questo o quell’impero, monarchia o repubblica federale socialista con una guerra mondiale, o almeno una guerra civile? Perché l’idea di morire per l’Impero austro-ungarico gli sembrava più ragionevole di quanto mi sembri oggi l’idea di morire per l’Unione europea? Perché dovrei essere meno sciocco di lui solo perché è nato nel XIX secolo e non aveva Wikipedia?

Credo che il mio bisnonno, Leon Obleščuk , sapesse benissimo che la sua morte sul fronte dell’Isonzo sarebbe stata del tutto inutile e che non gli importasse chi alla fine l’avrebbe vinta, quella guerra. Credo che, all’epoca, anche a lui venissero in mente guerre vecchie di cento anni e, a differenza dei suoi governanti, qualcosa da quelle avesse imparato.

Credo addirittura che avesse il presentimento che il mondo che si stava smontando sotto i suoi occhi sarebbe stato presto ricomposto, forse anche in modo tale che Austria e Italia sarebbero finite nello stesso paese. E credo che Leon sapesse anche che ci sarebbero stati degli sciocchi che non avrebbero gradito questo mondo appena ricomposto e che quindi avrebbero voluto smantellare tutto di nuovo. Preferibilmente con una nuova guerra.

E credo che Leon Obleščuk, in quella trincea, sapesse anche che dopo cento anni e più ci sarebbero ancora stati paesi che avrebbero mandato giovani innocenti a morire in massacri insensati.

Sì, credo che abbia pensato a me in quel fosso fangoso e abbia desiderato che al primo momento di tregua io mi alzassi, maledicessi l’idiota che mi aveva infilato il fucile in mano e filassi dritto in Madagascar. Perché qualcosa mi dice che il mio bisnonno Leon fosse un uomo molto intelligente che non avrebbe consentito che il suo pronipote andasse incontro al suo stesso destino.

Originally published in Zbiralec strahov, Založba Goga, 2022;  Forum editrice 2023

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