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È ora di ripensare il lavoro

Nella società postindustriale la tecnologia consente all’uomo di produrre sempre di più faticando sempre di meno. Dovremmo accettarlo e ragionare su come impiegare al meglio il nostro tempo. E invece perdiamo energie inseguendo tassi di occupazione fittizi

(Domenico De Masi – tpi.it) – Di fronte ai mutamenti imposti al mondo del lavoro dalla lunga sperimentazione effettuata controvoglia durante il lockdown e dai mutamenti invocati in questi giorni nelle piazze francesi, dove si chiede una migliore qualità della vita, riprendo dieci tesi che pubblicai nel saggio “Il futuro del lavoro” del 1993. Invito i lettori a un gioco: in trent’anni, quali di queste tesi è ormai obsoleta? Cosa hanno fatto gli imprenditori e i sindacati per metabolizzarle e superarle?

1. Il progresso umano è null’altro che un lungo itinerario dell’uomo verso l’intenzionale liberazione dalla fatica fisica, prima, e dalla fatica intellettuale, poi. In linea di massima, nella preistoria il lavoro è stato svolto da uomini coadiuvati da qualche bestia addomesticata e da pochi utensili primitivi. Dalla Mesopotamia in poi, è stato svolto da schiavi coadiuvati da bestie e da macchine elementari come la ruota. A partire dal Medioevo, è stato svolto da servi della gleba e da liberi artigiani serviti, a loro volta, da bestie modernamente bardate e da macchine di una certa sofisticatezza, come il mulino ad acqua.

Nell’era industriale, tra la metà del Settecento e la metà del Novecento, è stato svolto da macchine semplici e automatiche come la catena di montaggio, coadiuvate da operai e da impiegati, nell’ambito di un’organizzazione scientifica. A partire dagli anni Cinquanta, agli albori della società postindustriale, è stato svolto da operai, impiegati e manager coadiuvati da apparati digitali come il computer e il robot, nell’ambito di un’organizzazione sempre più flessibile. Infine, nella nostra ormai compiuta società postindustriale, è svolto da ideativi che inventano con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale e da robot che realizzano, coadiuvati da operai, nell’ambito di un’organizzazione creativa. 

Ne consegue una successione di fasi liberatorie: quella che va dalle origini al Medioevo ha portato alla progressiva liberazione dalla schiavitù; quella che va dal Medioevo alla prima metà del Novecento ha portato alla progressiva liberazione dalla fatica; quella iniziata a partire dalla seconda guerra mondiale, e nella quale attualmente viviamo, mira alla liberazione dal lavoro tout court. 

2. In alcuni casi (ad esempio, nel Medioevo e, sia pure in misura minore, nell’America di fine Ottocento) le invenzioni tecnologiche e organizzative sono state stimolate dalla necessità di sopperire alla carenza di schiavi o di proletari. In altri casi (come nell’Inghilterra luddista e nei Paesi dell’Ocse ai giorni nostri) sono state le invenzioni tecnologiche e organizzative a determinare liberazione di manodopera. In linea di massima, ogni volta che l’innovazione tecnologica e organizzativa permette di scaricare la fatica umana sulle macchine, si generano due diverse reazioni: in un primo momento il fenomeno è vissuto come disoccupazione e come minaccia all’equilibrio sociale; solo in un secondo momento – con la riduzione dell’orario di lavoro – il fenomeno è apprezzato come affrancamento dalla schiavitù del lavoro, della scarsità e della tradizione.

3. Per quanto si riscontrino casi storici in cui la disoccupazione sia dipesa da un eccesso di offerta di lavoro, il trend di lunga durata rivela che essa tende a dipendere più che altro da una domanda di lavoro e da un’organizzazione sociale incapaci di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane a loro disposizione. Spesso la tecnologia e l’organizzazione vengono intenzionalmente sotto-utilizzate per non creare disoccupazione; altrettanto spesso si ritarda la liberazione dalla fatica o dal lavoro per incapacità di trarre dalla tecnologia e dalle scienze organizzative tutti i vantaggi che esse sono già in grado di offrire o per incapacità di riprogettare il sistema sociale, mettendolo in grado di valorizzare l’ozio creativo, cioè la facoltà tutta umana di introspezione, ideazione, produzione e gioco inventivi.

4. Mentre la società greca e romana aveva appreso ad arricchire di significati gli scarsi oggetti a sua disposizione, la società industriale ha preferito arricchirsi di tecnologia per costruire sempre più oggetti e ha preferito arricchirsi di oggetti sempre più svalutati nei loro significati qualitativi man mano che il consumismo ne pretendeva la moltiplicazione quantitativa. Ciò porta alla rincorsa tra la sovrapproduzione di un mercato ciclicamente saturo di oggetti obsoleti e l’induzione di bisogni alienati per creare domanda fittizia di oggetti nuovi, a loro volta destinati a una rapida obsolescenza.

5. L’intreccio tra innovazione tecnologica e lavoro umano, per produrre ciò che il mercato di volta in volta richiede, evolve storicamente in modo che occorra sempre meno lavoro umano per costruire sempre più oggetti e per fornire sempre più servizi. In passato erano le aziende in crisi a ridurre il proprio personale; oggi licenziano anche le aziende di successo, perché possono permettersi le tecnologie più sofisticate e, quindi, più sostitutive di manodopera e mente-d’opera.

6. Nella società industriale, l’espansione dei consumi e la relativa lentezza del progresso tecnologico permettevano al mercato del lavoro sia di assorbire la nuova manodopera creata dalla sovrappopolazione, sia di riassorbire la vecchia manodopera resa esuberante dall’introduzione di nuove macchine. Invece nella società postindustriale il progresso tecnologico è così veloce da rompere definitivamente l’equilibrio tra offerta e domanda di lavoro, creando un surplus crescente di manodopera rispetto alle esigenze reali della produzione.

In passato la manodopera esuberante in agricoltura è stata scaricata nell’industria (in Italia è scomparso l’80 per cento dei contadini nel giro di un secolo); la manodopera esuberante nell’industria è stata scaricata nei servizi (in Italia è scomparso il 20 per cento degli operai manifatturieri nel giro di un trentennio); la manodopera esuberante nei servizi è stata scaricata nell’informazione (che, nei Paesi avanzati, impiega ormai il 40 per cento della popolazione attiva).

Oggi la tecnologia e l’organizzazione permettono ai settori di destinazione l’assorbimento di un’aliquota di manodopera minore della massa liberata dai settori di provenienza. Se a ciò si aggiunge la crescita numerica della popolazione mondiale e il recente accesso al mercato del lavoro centrale sia da parte delle donne, che ne erano state escluse dal maschilismo industriale, sia da parte dei lavoratori del Terzo mondo, che ne erano stati esclusi dalla divisione imperialista del lavoro, si giunge alla facile previsione di un prossimo, tumultuoso incremento di disoccupazione che, da congiunturale, diventa strutturale e si avvia a rappresentare la situazione prevalente per i cittadini del primo mondo, così come lo è stato da sempre per i cittadini del Terzo mondo. 

7. Il continuo aumento di disoccupati da una parte induce gli economisti del lavoro a elevare progressivamente il limite di disoccupazione considerato fisiologico; dall’altra induce i policy makers a escogitare occasioni sempre più pretestuose per mantenere una parte “fisiologica” di popolazione attiva in condizione di apparente occupazione e di reale subordinazione, come avviene con lavoretti precari e stressanti. Molti sforzi ideativi, che dovrebbero essere impiegati per riprogettare i tempi e la vita di una società postindustriale fortunatamente capace di procurarsi beni e servizi crescenti con l’impiego di energie umane decrescenti, vengono invece dirottati verso tentativi sempre più illusori di creare pretestuose occasioni di lavoro per una popolazione attiva che il progresso rende sempre più numerosa e longeva. Allo stato attuale tutto lascia supporre che il coraggio di accettare e pianificare la liberazione dal lavoro si troverà soltanto dopo che la totale sconfitta di questi sforzi sarà diventata schiacciante e evidente per tutti.

8. Rispetto alla liberazione dalla schiavitù, che caratterizzò il Medioevo e alla liberazione dalla fatica, che ha caratterizzato la società industriale, la liberazione dal lavoro, che caratterizzerà la società postindustriale, si profila con caratteristiche sue proprie. Delegato alle macchine quasi tutto il lavoro fisico e gran parte del lavoro intellettuale di tipo esecutivo, l’essere umano conserverà il monopolio della creatività, dell’estetica, dell’etica, della solidarietà, del pensiero critico e del problem solving. Ma, per loro natura, queste attività squisitamente postindustriali ammettono assai meno di quelle industriali sia la divisione dei compiti, sia la scissione tra tempo di lavoro e tempo libero. A differenza della disoccupazione necessariamente vissuta con il dolore della miseria e dell’emarginazione, la liberazione dal lavoro ammette forme di vita ben più flessibili, libere e felici: non solo una maggiore agiatezza diffusa, ma anche una maggiore autodeterminazione dei compiti, un’attività intellettuale più ricca di contenuti, maggiore importanza data all’estetica e alla qualità della vita, maggiore spazio per l’autorealizzazione soggettiva.

9. La possibilità di rifornire l’umanità dei beni e dei servizi che le sono necessari impiegando una minima quantità di lavoro umano comporta l’esigenza di progettare nuove forme “politiche” di ripartizione dei compiti, della ricchezza, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele. Poiché un numero crescente di persone fruirà di beni e servizi che non contribuisce a produrre, occorreranno forme nuove di welfare per soddisfare i bisogni di chi non lavora e forme nuove di gratificazione per soddisfare i bisogni di chi lavora.

10. All’interno delle organizzazioni, la scienza di pianificare e controllare le attività dei “dipendenti” deve convertirsi nell’arte di motivare alla creatività e rimuovere le barriere con cui la burocrazia tende continuamente ad ostacolarne le espressioni. All’interno della società, la preparazione professionale al lavoro creativo deve essere integrata con la preparazione professionale all’ozio creativo, in vista di un sistema fatto prevalentemente di “nuovi disoccupati”, cioè di “liberati dalla schiavitù del lavoro”.

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