di Giovanni Nazzaro

Mai come nei dieci anni appena trascorsi di pubblicazione di questa rivista, pensavamo di impiegare così tanto tempo, circa 30 giorni, solo per stabilire quale foto di copertina potesse trasmettere maggiormente il senso da noi vissuto per l’attuale situazione in Ucraina. Sì, perché il punto di vista dell’informazione è sempre quello di raccontare i fatti come spettatore. In genere, la scelta viene dettata da alcuni parametri stabiliti, come quello di evitare immagini che possano suscitare indignazione o sgomento, che siano rispettose dei diritti umani, della privacy altrui e che abbiano una forte connotazione informativa. Abbiamo iniziato il 24 febbraio ed abbiamo esaminato moltissime immagini e con loro abbiamo fatto un viaggio attraverso la fotocamera di chi era in Ucraina, giornalisti, fotoreporter, soldati o civili che hanno immortalato momenti che sinceramente non volevamo scoprire, immagini che testimoniamo come la vita in Ucraina, esattamente come quella che noi viviamo qui da noi, si sia fermata di colpo. Il viaggio ci ha portato alla dura realtà della guerra, quella senza alcun senso perché dettata dal delirio di onnipotenza di un singolo individuo, che anche i quotidiani e gli organi di stampa non divulgano per le stesse considerazioni che abbiamo fatto noi. La scelta finale è comunque forte, ma non rende probabilmente in maniera piena quanto abbiamo appreso da questo viaggio. Eppure dobbiamo andare avanti, continuando a lavorare e aiutando chi ha lasciato la propria casa ed ha chiuso tutta la sua vita in una valigia, chi scappa in treno senza meta pensando solo alla sicurezza dei propri figli.

L’attuale guerra ci sta mostrando la profonda relazione che oggi viviamo con la tecnologia. Anche la guerra ne fa uso. Non è la solita tecnologia militare, che viene sperimentata in ogni nuova guerra, come nel caso della Russia che ha utilizzato i missili ipersonici capaci di raggiungere una velocità almeno cinque volte quella del suono. È la semplice tecnologia, quella per così dire civile, che più ci ha sorpreso. I social networks sono divenuti lo strumento principale per veicolare le notizie, innescando la discussione se sono accompagnate da un commento, non interessa nemmeno approfondire e verificare se sia una fake news. Il risultato è che la guerra si propaga, trasformandosi, e non contano più le ragioni che hanno portato la Russia ad invadere l’Ucraina. Non importa se è Facebook piuttosto che Linkedin, sono tutti utili alla propaganda.

Uno sforzo disinformativo avvantaggiato dal libero accesso a questi social networks, che diventa ancora più evidente quando le notizie non sono distorte, sono del tutto false. Non possiamo non ricordare come, fino ad un attimo prima della guerra, la Russia avesse costruito una complessa macchina di propaganda tramite blog e pagine web, nonché tramite finanziamenti ai partiti occidentali estremisti e populisti. Ad oltre un mese dall’inizio della guerra potremmo portare tantissimi esempi, ne citiamo solo qualcuno. Quando l’ospedale di Mariupol è stato bombardato, hanno sostenuto che fosse vuoto e facesse da base d’appoggio per i nazionalisti ucraini, ma le immagini delle agenzie di stampa internazionali hanno mostrato come l’ospedale fosse perfettamente funzionante. Quando la centrale nucleare di Zaporizhzhia è stata bombardata, hanno sostenuto che fosse già in possesso della Russia e che quindi il bombardamento e l’incendio fossero opera di sabotatori e “neonazisti” ucraini. Se fosse stato vero, questi danni avrebbero dovuto provocare mancanza di elettricità alle zone alimentate dalla centrale più grande d’Europa, ma questo non è avvenuto.

Riconoscendo le due repubbliche separatiste del Donbass, quella di Donetsk e quella di Lugansk, nel discorso che preludeva alla guerra, il presidente russo ha fatto riferimento ad una missione di peacekeeping, ma ha detto anche che “l’Ucraina è stata creata dalla Russia e ne è parte integrante, per la sua storia e la sua cultura”. Queste parole trovano un immediato collegamento con ciò che accadde nel 2008 nel corso di un incontro tra Russia e Nato, quando George Bush era presidente degli Stati. Secondo quanto riferito al giornale russo Kommersant da una presunta fonte presente all’incontro, quando il discorso iniziò a vertere sull’Ucraina, il presidente Russo avrebbe avuto uno scatto d’ira. Rivolgendosi a Bush avrebbe detto “quello non è nemmeno uno Stato… Che cosa è l’Ucraina? Una parte dei suoi territori è Europa dell’est e una parte, per giunta notevole, gliel’abbiamo regalata noi! Dovete dirmi che cos’è l’Ucraina, perché io proprio non lo so, l’Ucraina non è niente”. Difficile credere che oggi si possa chiamare peacekeeping un’azione bellica che peraltro era stata in qualche modo anticipata ben 14 anni prima. È comprensibile l’attenzione per questa nazione per la sua grandezza e per la sua posizione. Come disse Zbigniew Brzezinski, consigliere nazionale per la sicurezza sotto la presidenza di Jimmy Carter, “senza l’Ucraina la Russia non può essere un impero”.

Le dittature dei regimi in questo pianeta hanno prodotto sempre e solo danni. Gli ucraini sono fuggiti dalla Russia ed ora stanno fuggendo anche dal loro paese. Alla fine di marzo oltre 4 milioni di persone sono state costrette a lasciare l’Ucraina, secondo le cifre comunicate dall’Alto commissario ai rifugiati delle Nazioni Unite, con centinaia di migliaia di bambini anche separati dai genitori. L’integrazione di queste persone con i paesi vicini sta disegnando di fatto una nuova geografia, non costituita più da confini politici. È la sconfitta evidente delle autocrazie che hanno goduto dei vantaggi della globalizzazione, che hanno regolamentato lo scambio delle merci, ma hanno sottomesso i diritti umani. Fino ad oggi abbiamo pensato che chi vivesse lontano dalla guerra non ne venisse coinvolto. Sbagliato. Abbiamo iniziato a preoccuparci solo quando abbiamo visto le ondate di rincari dei prezzi delle materie prime. L’attuale guerra di Ucraina ci ha reso evidente, quindi, come queste autocrazie non sono solo pericolose per chi vive dentro, ma sono pericolose anche per chi vive fuori. “La Russia è un paese dal passato imprevedibile”, diceva Yuri Afanasiev, e da quel passato può anche emergere, e si spera, qualcosa di positivo.

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