Made in Italy, vuol dire fatto in Italia. Nessuno usa la seconda espressione, ma una proposta di legge dice che chi usa parole straniere come quelle che sono nella prima potrebbe essere oggetto di sanzione. E non una multa da poco: dai 5 mila ai 100 mila euro secondo la proposta del deputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente della Camera Fabio Rampelli. Il «reato» qui è il «forestierismo» linguistico.
Solo che Fratelli d’Italia è il partito che guida un governo che ha creato un ministero che si chiama proprio del Made in Italy e non più tardi di qualche ora fa la premier Giorgia Meloni, a una fiera che il nome sanzionabile di Vinitaly, ha parlato dell’istituzione di un liceo del Made in Italy che sarebbe una versione solo legata a tematiche italiane del già esistente «Liceo delle scienze umane opzione economico sociale».
Il punto non è di cosa si tratta, ma di come lo si chiama. Sarebbe oggetto di sanzione per la legge che prevede l’utilizzo dell’italiano «in tutti i rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nonché in ogni sede giurisdizionale», ma anche in aziende private e sigle. Il modello è quello di Francia e Spagna, che l’Italia non segue da tempo: questo articolo è scritto con un computer e non con un ordenador o un ordinateur. Tutte le lingue sono piene di parole che derivano da altre: manicure è francese e universale, opera è italiano e altrettanto universale. Solo per fare due esempi. E succede anche a chi cerca di preservare il proprio idioma.
L’italofonia riporta la memoria al fascismo che vietò, senza riuscirci davvero, le parole straniere. Fra i primi commenti negativi alla proposta c’è stato proprio questo: il ritorno a quel passato. Per il Pd è una proposta «che rasenta il ridicolo», per Della Vedova di +Europa è «comica», per Calenda sabato scorso era in corso «uno scontro titanico per la palma della presa di posizione più cretina tra Ignazio La Russa e Rampelli, che presenta una legge contro chi non usa la lingua italiana nelle istituzioni pubbliche e nelle società partecipate». «Peccato che sia proprio il suo governo ad aver istituito il Ministero del “made in Italy”. Rampelli denuncerà il collega di partito Urso che è a capo di un siffatto ministero, tanto incline al forestierismo perfino nel suo nome? Insomma è lo stesso governo di cui lui fa parte ad essere responsabile dell’”inquinamento della lingua italiana”, denunciato nella relazione alla sua legge» hanno detto gli esponenti del Movimento 5 Stelle in commissione cultura alla Camera e al Senato.
Negativa, ma con un’analisi, anche l’opinione dell’Accademia della Crusca. «La proposta di sanzionare l’uso delle parole straniere per legge, con tanto di multa, come se si fosse passati col semaforo rosso, rischia di vanificare e marginalizzare il lavoro che noi, come Crusca, conduciamo da anni allo scopo di difendere l’italiano dagli eccessi della più grossolana esterofilia, purtroppo molto frequente» ha detto all’AdnKronos il professore Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia. «L’eccesso sanzionatorio esibito nella proposta di legge rischia di gettare nel ridicolo tutto il fronte degli amanti dell’italiano. Un intervento poteva essere eventualmente concordato con chi da anni, come noi, si occupa del problema. Ora, ahimè, in questa polemica, troveranno spazio anche maggiore tutti quelli che, con la scusa del fascismo e del nazionalismo, ostacolano ogni tentativo di realizzare un’equilibrata convivenza tra le esigenze di internazionalizzazione e la pur legittima attenzione alla lingua nazionale, sovente calpestata ed estromessa senza motivo. Ora urleranno: ecco, avevamo ragione noi!”. Infine ricorda: “E’ un’idea vecchia, già discussa e abbandonata nel 2004″».
La Crusca fa appello al buon senso e chiede l’applicazione delle norme che già esistono. «Basterebbe un po’ di autocontrollo da parte degli enti pubblici e dei ministeri (che, mi pare, per ora nulla hanno fatto) per evitare le stupidaggini come il “booster” delle vaccinazioni Covid al posto di “richiamo”, o l’incredibile selva di anglismi del “Piano scuola 4.0”. Non la fantasia di leggi nuove, insomma, ma un preciso indirizzo dato dai ministeri competenti, con semplici circolari».
Gli anglicismi sono realmente sempre più diffusi nella lingua italiana: quasi 9 mila quelli presenti nel dizionario della Treccani su circa 800 mila parole in lingua italiana, ossia lo 0,01%. Ce ne sono anche nell’uso comune: chiunque abbia sentito un ragazzo giocare ai videogiochi ha udito il termine «killare», solo uno dei tanti verbi inglesi italianizzati dai più giovani. Anche il mondo aziendale ne fa un grandissimo uso. Non sempre in modo utile secondo Claudio Giovanardi, membro dell’Accademia della Crusca, docente di Linguistica italiana presso l’Università Roma Tre e autore di Inglese-italiano 1 a 1 intervistato da Wired. «Nella propria cassaforte una lingua di cultura ricca come l’italiano può trovare sempre le risorse giuste per evitare l’uso dell’inglese; è comprensibile che gli oggetti dell’ambito tecnologico, per esempio, ci arrivino con il nome inglese, ma non significa che l’italiano non possa avere le risorse interne per sostituirlo. Occorre capire se questa operazione sia economica, perché molti di questi termini hanno una circolazione europea, se non addirittura globale».
Il punto della comunicazione pubblica è diverso. Qui, secondo gli esperti, serve comprensibilità. Il gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca cerca di portarla dando indicazioni per tradurre in italiano termini stranieri: spending review è taglio della spesa pubblica, lockdown confinamento.
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