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Sbagliato fare distinzioni: vittime di mafia mai colpevoli – Il Riformista

Si celebra oggi la «Giornata nazionale della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti delle mafie». Nel suo nocciolo duro è il ricordo della lunga teoria di 1069 morti che “Libera” aggiorna da 28 anni; l’occasione per rievocare collettivamente la tragica fine di tanti uomini, donne, bambini (i minori sono 115), caduti per mano di altri uomini, donne e talvolta per mano di altri coetanei neppure maggiorenni.

Quell’endiadi «vittime innocenti» segna a tutta evidenza un discrimine, traccia un solco, segna un confine su cui, oggi, bisognerebbe pur sempre riflettere e meditare secondo con uno sguardo meno superficiale e enfatico. Ma perché esistono vittime colpevoli? Sono per caso colpevoli le migliaia di vite sterminate nelle faide, negli agguati, nelle imboscate di mafia? La domanda non vuole essere provocatoria, ma cerca affannosamente un chiarimento se è vero, com’è vero, che a Castelvetrano, patria del boss Messina Denaro, qualcuno solo pochi giorni or sono ha avuto da obiettare sull’intestazione della scuola al piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito a Palermo il 23 novembre del 1993, per indurre suo padre, Santino, ex mafioso a sua volta e collaboratore di giustizia, a fare marcia indietro. Una “vittima” anomala, deve aver pensato qualcuno, essendo quel bambino il figlio di un importante esponente di cosa nostra.

E’ il pretesto, quel dibattito, per tornare su quello spartiacque, su quella divisione che la Giornata di oggi espressamente traccia e declina tra vittime e vittime, tra corpi e corpi, tra sangue e sangue. Distinguere i morti, discernere le responsabilità. Nel corso di una sanguinosa guerra di mafia, un uomo, il cognato di un boss latitante, accompagnava a scuola la nipotina di pochi anni. Era la figlia di sua sorella e lo zio, in mancanza di altri, si incaricava tutte le mattine di passare a prenderla in auto e di lasciarla davanti alla porta dell’istituto che frequentava. Era stato un militare, era un po’ fanatico, aveva una piccola palestra. Venne freddato a colpi di pistola non appena la bambina ebbe varcato l’ingresso della scuola.

Lui è stato censito tra le vittime “colpevoli”, la sua parentela lo ha inchiodato a una irredimibile damnatio memoriae. Non può superare il recinto di quell’ideale giardino dei giusti e non è degno di commemorazione oggi, né di un fugace ricordo. Eppure, è solo uno, uno tra i tanti e tanti casi di uomini, donne, ragazzi trucidati per una parentela, per una frequentazione, per una lontana amicizia. Le mafie non hanno tribunali, né sono (come qualcuno si ostina a dire) una onnisciente Spectre. Uccidono per un sospetto, per uno sguardo sbagliato, per il gusto di terrorizzare l’avversario e di piegarlo, per la paura di una vendetta. Chi cade sotto i loro colpi non per questo non è innocente, non per questo merita di essere contabilizzato tra i “colpevoli”, tra quelli – per essere chiari e duri – in fondo in fondo se la sono cercata e che ora brucino nella Geenna degli impuri.

Molti di coloro che scontano pene rigorose, che vivono negli anfratti carcerari del 41-bis hanno visto cadere parenti, amici, familiari sotto il piombo delle mafie e sanno bene che nulla di male quelli avevano commesso; sanno bene che nelle faide il sangue chiama il sangue; che tante sono state le vittime collaterali di guerre d’odio che, troppe volte, lo Stato non ha saputo evitare e reprimere lasciando che si consumassero mattanze feroci. Uno Stato che stilava bollettini di guerra in cui, per sopire la propria impotenza, si compiva l’ulteriore scempio di incasellare quel corpo martoriato nell’una o nell’altra delle fazioni in lotta, quasi che quella macabra contabilità rendesse meno bruciante il fallimento degli inquirenti. Per fortuna il cupo clangore delle armi mafiose si è diradato, le cosche hanno riposto quasi ovunque i kalashnikov e preferiscono banchettare nei salotti della corruzione sistemica.

Il paese ha un disperato bisogno di verità anche sugli anni della lotta alla mafia; ha necessità di comprendere se, prima o poi, tra le vittime innocenti delle mafie siano da contabilizzare anche tutti coloro che hanno subito ingiusti processi, ingiuste persecuzioni mediatiche, ingiuste condanne in nome della lotta ai clan. Ha bisogno il paese di sapere se questa umanità dolente di accusati, di linciati, di archiviati, di assolti sia da mettere o meno in conto allo stato d’eccezione che le mafie hanno imposto dopo il 1992 e se, tutte quelle vite spezzate, siano il prezzo di una decennale, complessiva inefficienza e, talvolta, connivenza dello Stato con le cosche. Quando il velo sulle mafie è stato squarciato alla falce delle armi mafiose e delle sue bombe, tante volte ha fatto da contraltare (con punti di analoga asprezza e durezza) la scure repressiva delle istituzioni che quella sfida esiziale dovevano vincere a qualunque costo nell’interesse di tutti.

Oggi – non a caso c’è da pensare se si pensa alla concomitante Giornata della memoria – esce nelle librerie il libro che Gaia Tortora (Testa alta, e avanti, Mondadori) ha dedicato al martirio del padre; intanto, non senza polemiche, prosegue il dibattito, a tratti infuocato, sul libro in cui Alessandro Barbano (L’inganno, Marsilio, 2022) ha compendiato alcune delle storie della malagiustizia antimafia. Si sa bene da quale parte stia la verità, chi abbia torto e chi abbia ragione, ma il sezionamento morale delle vittime è operazione da condurre con grande prudenza. La violenza mafiosa ha travolto centinaia di vite innocenti, ma ha anche il torto di aver innescato reazioni dello Stato che non sono rimaste prive di gravi conseguenze per la vita di molte, ma molte, persone.

Ecco il dibattito asfittico e troppe volte retorico tra giustizialismo e garantismo che affligge il paese e gli impedisce di concentrarsi sui nuovi santuari del malaffare, dovrebbe procedere proprio dal rendere il giusto tributo a tutte le vittime, senza discriminazioni e riserve. Papa Francesco ha pronunciato parole memorabili nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie al Trionfale; rivolgendosi ai confessori ha detto loro «per favore perdonate tutto, perdonate sempre, per favore: il sacramento della confessione non è per torturare ma per dare pace; perdonate tutto, tutto, tutto, come Dio perdonerà voi», ha ripetuto. Una pacificazione con i mafiosi è improponibile, stolta e irraggiungibile, ma di fronte a chi ha perso la vita la livella della morte dovrebbe operare da saggio monito.

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