Infine, assolto per l’ultima volta, a guisa di colui che è fortunosamente sopravvissuto al rito della caccia alla stracca – l’inseguimento della selvaggina fino a costringerla a lasciarsi catturare non per l’abilità del cacciatore ma per esaurimento – Lillo Mannino da Sciacca chiosò: “Non provo sollievo ma stanchezza”. È l’eterno paradosso italiano, ove il processo o è spiccio, sommario, o commina una pena senza fine: tertium non datur.
L’iter processuale diviene infatti un plotone di esecuzione repentino o una pratica venatoria se in tribunale entra l’uomo, non il fatto, il tipo d’autore e non l’autore del reato. L’opposto del modello accusatorio, di quell’inno anglosassone, che per definizione è armonioso, “ragionevole”. Nel suo incedere, nella sua durata. Nel quale, la pubblica accusa, ai sensi di una norma disgraziata – l’art 358 c.p.p. – “svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. In cui il mancato esercizio dell’azione penale o l’assoluzione non sono una sconfitta – davighianamente l’epilogo di un colpevole che l’ha fatta franca – ma una conquista, una liberazione, un ritorno alla vita.
Dicono che Raffaele Lombardo da Grammichele – l’uomo che un tempo lottò contro pale eoliche e termovalorizzatori (forse lasciandoci le penne) – ami il cirneco dell’Etna: un cane da caccia che nella corsa raggiunge finanche i 50 km orari. Dicono pure che una volta uscisse a cavallo. Certo è che, alle porte del suo settantaduesimo compleanno, tredici dei quali trascorsi nelle aule di giustizia, l’ex Presidente della Regione Siciliana non avrebbe potuto immaginare che il processo che lo riguarda – per il quale è stato assolto dalla Corte d’Appello di Catania “perché il fatto non sussiste” e “per non aver commesso il fatto” dai reati di concorso esterno in associazione mafiosa e di corruzione elettorale – rischi di trasformarsi in una vera e propria battuta di caccia.
Quella venagione al seguito, nella quale la preda, inseguita da cani e con il cacciatore a cavallo, viene infine catturata sol perché sfinita, stracca, esanime. I pubblici ministeri di Catania hanno, infatti, proseguito la “partita” e, in ottanta pagine di ricorso per cassazione, valutato la sentenza di assoluzione “piena di contraddittorietà”, denunciando una “parcellizzazione degli elementi di prova”, non avendo il giudice dato il giusto peso alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Vale proprio la pena ripercorrere quelle dichiarazioni per comprendere come siano stuzzicanti, forse finanche gustose dal punto di vista narrativo, ma incapaci di fondare un accertamento di colpevolezza, in dubbio pro-reo, oltre ogni ragionevole dubbio, pena il ricadere in un utilizzo medioevale, premoderno, nell’esercizio della potestà punitiva dello stato.
C’è, in questa interminabile vicenda, un pentito di mafia, tale D’Aquino, il quale ha per esempio riferito di aver incontrato un uomo politicamente vicino a Lombardo e di avergli richiesto la promozione in una cooperativa sociale: l’unica certezza è che la promozione non sia mai avvenuta e che quell’uomo sia stato assolto. Però Lombardo… non poteva non sapere! Un certo Nizza aveva affermato in un primo tempo ai pubblici ministeri di aver votato alle comunali per un ragazzo del partito di Lombardo che, a suo dire, non era Lombardo. Poi in udienza il “ragazzo” in questione sarebbe stato il fratello di Lombardo che, all’epoca dei fatti, aveva appena 48 anni e, lo si sa, che alle porte del cinquantesimo genetliaco, in Sicilia ci si affaccia come virgulti alla vita!
Il mafioso agrigentino Digati ha giurato di aver fatto votare il partito di Lombardo nell’anno del giubileo quando il politico siciliano – che allora faceva il vicesindaco a Catania – quel partito non aveva neanche in testa di fondarlo. In effetti, Digati dichiarò di aver votato uomini di Forza Italia. Un certo Caruana raccontò di un summit col mafioso Bevilacqua, al quale avrebbe partecipato Raffaele Lombardo: nessuna traccia, nessun riscontro se non che Bevilacqua abbia votato il candidato del Partito Democratico. E che dire del figlio del boss Di Dio, presunto raccomandato per regolare una situazione debitoria in un consorzio delle acque, mai ricevuto neanche dai dipendenti della struttura?
Dell’appalto della Tenutella rispetto al quale non v’è traccia dell’ingerenza del politico siciliano. Della ricerca, vana, dopo 12 anni di indagini, anche di un solo favore fatto ai mafiosi da Lombardo e del geologo Barbagallo, in odor di mafia, il quale, intercettato, si lamentò finanche di esser stato penalizzato e prostrato da Lombardo? Si potrebbe davvero rimandare Raffaele Lombardo dinnanzi al giudice d’appello, sulla base del fatto che il collaboratore Francesco Schillaci abbia affermato di aver appreso, affacciatosi come Romeo dalle finestre del carcere di massima sicurezza di Opera, dal boss La Rocca che Lombardo fosse un suo amico mentre Lombardo risulta essere uno dei pochi politici che non cita mai in anni di conversazioni intercettate?
Ve la sentireste di condannare ad altri anni di verifica, infamandone la vita, un uomo perché il pentito Tuzzolino – condannato poi per diffamazione aggravata nei confronti di un magistrato – abbia affermato di averlo incontrato a Palazzo d’Orleans, alle 5:30 di mattina, non sapendo che lì non sarebbe sfuggito alle telecamere attive h 24? Si vuole forse inchiodare Lombardo perché Maurizio Avola sostenne di averlo visto – trent’anni prima – in una macchina che poi si scoprì neppure immatricolata all’epoca a Catania? E, visto che questa è una storia non di fatti ma di cani e cavalli, potrebbe la Cassazione – giudice di legittimità – annullare con rinvio, perché Paolo Mirabile spergiurò di aver incontrato il principe Scammacca, a suo dire proprietario di un maneggio, vestito da cavallerizzo, per chiedergli di intercedere presso Lombardo “nientedimeno” che per la licenza di una trattoria?
Scammacca (che non è principe) non ha mai avuto a che fare con un cavallo in vita sua! Con i cavalli aveva semmai avuto a che fare, in vita, il povero L’Episcopo, proprietario di un maneggio considerato, senza il barlume di un riscontro, dai pubblici ministeri “la cassetta della posta della mafia”, nel quale i boss avrebbero recapitato a Lombardo suppliche e preghiere. Giuseppe L’Episcopo ha lasciato questa terra il giorno dell’assoluzione di Lombardo e le sue povere bestie, ancora in vita, risultano essere perseguitate dall’accusa di avere avuto a che fare con la mafia!
Quanto dovrà durare un processo cui sono state dedicate, soltanto nell’anno 2010, 16 titoli di apertura il Tg1 delle 20 e migliaia di articoli tutti intrisi di mascariamento? Una vicenda che spaccò la Procura etnea, 12 anni fa, nella quale il Procuratore pro tempore dell’epoca e il suo aggiunto (oggi attuale Procuratore) non aderirono alla posizione dei sostituti che volevano esercitare a ogni costo l’azione penale? Una trama che ha già registrato almeno due richieste di archiviazione, un’imputazione coatta, una condanna in primo grado, un’assoluzione in appello, un annullamento con rinvio, sino a un’altra assoluzione in appello lo scorso gennaio?
Guai se il processo diviene una pratica venatoria, la ricerca di un colpevole ad ogni costo! Non è giustizia ma, sciascianamente, terribilità! Se di caccia, cavalli e cani parliamo, si attende, in questa storia tutta siciliana, non la Lupa, ma il Veltro. “Molti son li animali a cui s’assomiglia e più saranno ancora, infin che ‘l veltro verrà…” diceva il Poeta. Il veltro, il levriero, la personificazione di una giustizia non come dea bendata, che imbracci a ogni costo la spada, inseguendo un uomo per 12 anni. Una giustizia che non pedini, non talloni, non cacci. Non sappia braccare. Che sappia invece riformarsi, liberarsi, liberare. In cui non si esca stracchi, vinti, da un processo. Nella quale, l’assoluzione, laddove arrivi, regali sollievo e non stanchezza.
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