Trattare un candidato come fosse già presidente: un’ipotesi
Ma che dire di un presidente incriminato, condannato o entrambi, prima di entrare in carica, come potrebbe essere il caso di Trump? Entrambi i promemoria del 1973 e del 2000 delineavano le conseguenze di un’accusa osservando che un procedimento penale contro un presidente in carica potrebbe comportare “un’interferenza fisica con l’esercizio delle sue funzioni ufficiali da parte del presidente che equivarrebbe a un’incapacità”. Inoltre, i presidenti hanno bisogno di accedere a informazioni riservate: la reclusione comprometterebbe ovviamente anche la capacità di un presidente di accedere a tali informazioni, che spesso devono essere archiviate e visualizzate in una stanza sicura e schermata, cosa che un carcere non è.
Un’altra strada ipotetica è quella legata al XXV Emendamento che si occupa di dichiarare un presidente “incapace di adempiere ai poteri e ai doveri del suo ufficio”. Le due note del Dipartimento di Giustizia notano, tuttavia, che gli autori dell’Emendamento non hanno mai considerato o menzionato l’incarcerazione come base per l’impossibilità di adempiere ai poteri e ai doveri dell’ufficio. Stesso dubbio circa l’eventuale condanna e incarcerazione di un candidato.
Il vero impedimento che potrebbe giungere nei confronti di Trump, a questo punto, è più etico e di buon gusto che legale. A fermarlo potrebbe essere il Gop stesso, intimorito dall’onda lunga dei guai giudiziari del compagno di partito. Tuttavia, alcuni dei suoi rivali per la nomination repubblicana, incluso Ron DeSantis, sono stranamente già balzati in sua difesa. A costringerlo alla resa potrebbero essere i suoi stessi consiglieri, che hanno anche riconosciuto le insidie di una campagna che non ha elaborato la logistica per organizzare contemporaneamente una corsa presidenziale e affrontare un processo penale. La squadra elettorale è infatti separata dal team legale di Trump, e i due non agiscono sempre di concerto.
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