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McDonald’s è il simbolo dell’America che permette agli europei di definirsi

«Un marchio chiamato a rappresentare una nazione». È così che il New York Times il 30 marzo del 2003 definiva McDonald’s. Ovunque nel mondo, si leggeva nell’articolo, la gente – soprattutto i giovani – stava utilizzando la famosa catena americana di hamburger come bersaglio preferito per le loro proteste contro l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, appena cominciata.

Le foto che illustravano l’articolo, che mostravano ragazzi stesi per terra davanti a un McDonald’s, altri che bruciavano un pupazzo di Ronald McDonald fuori dell’Ambasciata americana – venivano da Seul, da Buenos Aires, da Quito e Manila. Il testo citava casi simili a Parigi e Karachi. Era anti-americanismo puro e semplice, scrisse l’autore, o come minimo una forma di contraccolpo contro un marchio diventato troppo potente, troppo presente, troppo globale, proprio come l’America stessa agli occhi dei manifestanti.

Negli anni in cui il processo delle globalizzazione si è affermato nelle sue versioni più forti, diciamo dal 1980 in poi, McDonald’s ha preso lo storico posto della Coca-Cola come simbolo supremo di un tipo di egemonia americana a 360 gradi, allo stesso tempo militare, economico, politico e culturale. Come se fosse quello l’inevitabile destino per tutti: quel modello di progresso, quella modernità, sia per il mondo industriale, sia per tutte quelle nazioni ancora “in via di sviluppo”?

Il significato di McDonald’s

Il fatto che l’arrivo di McDonald’s abbia scatenato quasi ovunque – in qualsiasi momento, in qualsiasi contesto – qualche forma di protesta nei territori in cui sbarcava, ha reso evidente a tutti gli osservatori che all’origine dell’ostilità non ci fosse qualche particolare scelta in politica estera di qualche presidente, ma appunto un rifiuto spontaneo di quel destino di “modernità” che la catena sembrava rappresentare.

Negli ultimi trent’anni si sono registrate proteste dall’Islanda alle Bermude, da Montmartre a Praga (nel 2000, in coincidenza con una riunione del Fondo monetario internazionale). Il Regno Unito ha visto nel 1992 la sconfitta di una lotta durata oltre dodici anni, portata avanti dai cittadini di una delle zone più chic di Londra – Hampstead – contro l’arrivo della famosa catena.

Ma è la Francia che ha visto le manifestazioni anti-Mac più estreme. Nel maggio del 2000 un gruppo di nazionalisti bretoni – collaboratori dell’Eta basca – ha piazzato una bomba in un McDonald’s in Bretagna, uccidendo la responsabile del punto vendita.

Molto più significativo è stato il movimento lanciato dal agricoltore-sindicalista José Bové, che è partito dalla distruzione di un cantiere McDonalds nel suo paese di Millau per arrivare a organizzare una mega-manifestazione in occasione del raduno annuale dell’Organizzazione mondiale del Commercio a Seattle nel 1999.

Poi Bové e e i suoi seguaci hanno fatto partire una crociata nazionale contro la globalizzazione in generale e la malbouffe, il cibo spazzatura, in particolare. Bovè è riuscito a trasformare il suo processo nel luglio 2000 in una grande manifestazione che ha attirato ecologisti da tutta l’Europa, ma gli ha garantito anche l’attenzione del governo e della stampa internazionale. Così è decollata un’ondata di protezionismo alimentare in Francia sostenuta anche dallo stato, tutt’ora in piena evoluzione. È stato il secondo governo di Macron nato a luglio 2022 che ha voluto aggiungere il titolo di «sovranità alimentare» al suo ministero dell’Agricoltura, mossa copiata prontamente dal governo Meloni a novembre 2022.

Il caso italiano

In Italia la protesta contro l’apertura del primo McDonald’s a Roma, nel 1986, a piazza di Spagna, è entrata nei libri di storia, ed è spesso associata con la nascita, di poco successiva, del movimento di SlowFood, fondato dall’ambientalista piemontese Carlo Petrini.

Nel 1989 Petrini e altri attivisti hanno lanciato a Parigi il primo manifesto del movimento, annunciando la ricerca di uno stile di vita assolutamente opposto a valori di produttivismo e di globalizzazione simboleggiati da McDonald’s e simili. Comunque SlowFood non ha mai ostacolato la diffusione degli hamburger industriali, come è successo in altri paesi.

A questo ha pensato in mille modi la pubblica amministrazione italiana, secondo quanto riferisce uno dei primi presidenti di McDonald’s in Italia, Mario Resca. In un libretto del 1998, Mc Donald’s. Una storia italiana (scritto con il giornalista Rinaldo Gianola), Resca descrive «i mille passaggi e controlli» necessari per aprire un ristorante. Poi «Ci fu anche un chiaro tentativo di boicattarci.. Venne introdotta la cosidetta legge 15 che impediva l’apertura nei centri storici…Per noi era una cosa incomprensibile».

Una strategia che ha anche ottenuto qualche risultato concreto come l’apertura di soli 23 ristoranti nei primi dieci anni, un ritmo infinitamente più lento che non in qualsiasi altro paese europeo, compreso la Francia.

Oggi il sito di McDonald’s Italia parla di 670 ristoranti nel paese, che lavorano con l’85 per cento di fornitori italiani, e danno lavoro a 32.000 dipendenti. Dal 2010, seguendo la politica globale dell’azienda, i suoi menu hanno cominciato ad adattarsi ai gusti locali (presunti), una manovra che ha assicurato al gigante del fast food il sostegno ufficiale del governo Berlusconi in carica allora, in cui Mario Resca è diventato consigliere commerciale del ministro della Cultura.

Mentre McDonald’s resta un’azienda internazionale, Slow Food si presenta oggi come una vasto movimento transnazionale no-profit, con una fortissima impronta etica. Il suo sito parla di un millione di simpatizzanti e 100.000 iscritti in 160 paesi. Il contrasto con la Francia – dove José Bové ha preso l’1,3 per cento dei voti alle elezioni presidenziali del 2007 ed è scomparso nel parlamento europeo – mostra una grande differenza: quella tra la costruzione di un progetto antagonistico a quello che viene dall’America (Bové) e la proposta di una realtà del tutto nuova e alternativa all’offerta americana, un’innovazione che dà per scontata una coesistenza pacifica con il mondo del fast food.

Ma c’ è un’altra lezione che viene dalla storia comparata di questi due modelli di rapporto col cibo in Europa. Quella cheemerge anche dalla storia contemporanea, prima dell’Europa, poi del resto del mondo: da ineludibile modello di riferimento sul fronte della modernità, la presenza dell’America finisce sempre a dividere chi vuole – o è costretto – a confrontarsi con essa. Da Hollywood al femminismo, dal rock’n’roll ai social media, dai Simpsons a McDonald’s, e poi Pizza Hut, KFC, Starbucks eccetera, l’imprevidibile miscela di hard e soft power americano sfida ogni idea consolidata di sovranità, identità e modernità, ridefinendo ogni giorno, in modo del tutto involontario, cosa vuole dire essere «europeo».

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