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L’Italia rischia più ora che nella vecchia globalizzazione

La globalizzazione è percepita come una delle principali cause del malessere economico italiano. Soprattutto in questa fase dominata dal neo-maccartismo anti Cina originato da Washington e recepito “chiavi in mano” in Europa. Ma è davvero così? Nel passato certamente ma oggi non più, o non nella stessa misura.

Nella fase di boom economico tra il 1990 e il 2007 il nostro paese ha perso 35 punti percentuali di crescita del Pil rispetto all’America e oltre 20 nei confronti dei partner Ue. Nello stesso periodo, le importazioni dall’estero di Roma sono raddoppiate in termini reali, e la quota della Cina di questo import è quasi triplicata.

«Ciò è stato associato a un enorme spostamento delle attività manifatturiere, con il 15 per cento di posti di lavoro persi in Italia e una riduzione netta del numero di imprese attive di quasi 25 per cento tra il 1998 e il 2014, afferma Italo Colantone, professore alla Bocconi e autore dello studio per JP Morgan Globalization and Skills in the Italian Labor Market. Lo shock da globalizzazione ha provocato un forte riaggiustamento nel settore manifatturiero italiano. Analizzando le esportazioni totali del made in Italy contabilizzate per settori, nel periodo tra il 1993 e il 2015 i prodotti tessili hanno avuto un calo dal 12 per cento al 7 per cento, una diminuzione c’è stata anche nei comparti pellami, mobili e giocattoli, per i quali ha influito non solo la concorrenza di Pechino (aumento dell’import) ma anche di altre nazioni a basso costo del lavoro come Vietnam e India.

Al contrario, il nostro paese ha registrato un incremento della fetta di export in alcuni settori chiave come i prodotti chimici, l’auto e l’indotto, metalli e alimentari. Molte imprese hanno adottato strategie più aggressive, prioritario ad esempio il fattore delle abilità e competenze della forza lavoro. Così il manifatturiero – secondo in Europa dopo la Germania – occupa oggi più lavoratori di media e alta qualificazione rispetto a prima.

Rimangono però diversi problemi. La crescita economica è ancora fiacca e la disoccupazione rimane elevata. Le aziende più grandi ed efficienti, in modo sproporzionato nel nord, Lombardia, Piemonte e Triveneto, si sono ampiamente riprese dalla crisi. Eppure, altre imprese e alcune aree geografiche, soprattutto al sud, rimangono indietro. La ristrutturazione non è finita soprattutto perché la globalizzazione ha comportato un aumento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, con salari reali stagnanti e un impoverimento della classe media.

Interesse pro-globalizzazione

In tale scenario, quali politiche dovrebbe seguire il governo Meloni, ammesso e non concesso che la destra abbia contezza di questi macro fenomeni? «L’Italia può prosperare in un mondo globalizzato e dovrebbe quindi mantenere al suo interno una posizione politica pro-globalizzazione nel contesto di un’Unione europea più forte e compatta», risponde Colantone. Imprescindibile però è che Roma lavori di concerto con i maggiori partner Ue, soprattutto Francia e Germania, senza percorrere strade isolate in base a impulsi nazionalisti o peggio ancora populisti. Tra i fattori in gioco c’è anche il profondo mutamento del commercio mondiale, tutti i paesi si confrontano con il Wto (World Trade Organization) o meglio, oggi, con la sua assenza. L’organismo che garantisce un sistema equilibrato di regole multilaterali è in stato di morte apparente.

Dal 2020 mancano i giudici per la risoluzione delle dispute e fin quando non verranno rimpiazzati nulla funziona (a bloccare il meccanismo sono gli Stati Uniti “azionista di riferimento” anche della Banca mondiale, del Fmi e di tutti gli enti multilaterali nati dopo il 1945). Ecco perché, in questa fase, ricorrere al Wto è inutile anche in casi di assoluta priorità per l’Ue, come per l’Inflation Reduction Act (Ira) proposto da Joe Biden e approvato dal Congresso Usa, che finanzia con sussidi di centinaia di miliardi le imprese americane, ed è etichettabile come protezionista. In questa situazione, bypassando un Wto ormai congelato, ha già preso forma un nuovo assetto del commercio globale basato su relazioni bilaterali tra paesi o blocchi.

Riglobalizzazione selettiva

E qui intervengono i rapporti di forza. Se le regole multilaterali garantivano pure le nazioni più piccole, oggi pesa il potere di chi ha più muscoli, finanziari e geopolitici. Fenomeno riscontrato di recente, quando le proteste europee contro il protezionismo dell’Inflation Reduction Act sono state portate dritte alla Casa Bianca, Biden però ha ricevuto Olaf Sholz e Emmanuel Macron ma non la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Giorgia Meloni ha dovuto incassare il colpo, vero è che l’Italia è platealmente penalizzata dalla rinnovata assertività bilaterale dell’asse franco-tedesco. “Riglobalizzazione selettiva” la definisce Gianmarco Ottaviano della Bocconi, cioè «una riconfigurazione dell’economia globale per gruppi integrati di paesi affini, coalizioni in competizione tra loro per l’egemonia economica, politica e culturale» (corollario: l’uso delle sanzioni economiche contro la Russia per punire Vladimir Putin dell’invasione dell’Ucraina conferma l’assunto).

Ecco, le sanzioni sono una faccia della riglobalizzazione selettiva, l’altra sono i sussidi alle imprese. E la Cina qui batte ogni altro competitor. Bisognerà quindi valutare come l’Italia – agendo di concerto con l’Unione europea – possa competere con il colosso asiatico attivo sui mercati con le sue aziende di stato.

Le carte sul tavolo sono tre: l’ondata di neo-maccartismo anticinese; la realtà comunemente accettata in occidente in cui Pechino è il “nemico sistemico n.1”; con Xi Jinping al terzo mandato la Cina da superpotenza economica ha ora legittime ambizioni da protagonista geopolitico. Tutti fattori dirompenti e gravidi di rischi. Escludere o cercare di mettere all’angolo una nazione orgogliosa e motivata, con un mercato da 1,4 miliardi di abitanti, potrebbe avere conseguenze pesanti sia sul piano economico che militare.

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