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L’establishment italiano è complice della destra peggiore di Giorgia Meloni

Il governo di Giorgia Meloni, il più a destra della storia repubblicana, difende lo status quo; il nostro moderatismo ricambia con un premuroso sostegno. Non un afflato di solidarietà nazionale lo spinge, ma il noto, pavido opportunismo.

Se prima sosteneva governi ben inseriti nel quadro istituzionale europeo, ora è cambiato tutto; governa chi fino a ieri aggrediva la Ue, invocava l’uscita dall’euro, si beffava della disciplina di bilancio, appoggiava la Russia di Vladimir Putin. C’è nel Dna dei tre partiti di governo insofferenza per i contrappesi istituzionali che limitano i poteri della maggioranza.

Col suo silenzio questa parte della classe dirigente compra la benevolenza del governo per chi investe poco e poco paga il personale nonostante l’inflazione, appiattendosi su prodotti di basso rango.

Fosse conscio del proprio ruolo, l’establishment tutto farebbe crescere “capitale umano” e competitività. Cercando personale ben qualificato alzerebbe il livello medio dei percorsi educativi, ma si contenta degli assolo del ministro Valditara. Ne soffrono le imprese che tengono a galla il paese.

La “preparata” Meloni spaccia per rivoluzione fiscale una vecchia idea di “concordato fiscale”, roba da commercialisti di terza fascia.

Lasciamo sullo sfondo l’inumano trattamento dei migranti, la gestione del “caso Cospito” volta ad aizzare il vasto mondo del dissenso, il muso duro sui Rave Party, l’aggressione verbale all’opposizione del vice presidente Copasir Donzelli; per molti aspetti si rivede l’intolleranza della destra ex Msi.

Non minori rischi comporta il sostegno di Meloni alla Polonia nel contrasto con la Ue, che le blocca i fondi del Next Generation Eu perché asfalta lo stato di diritto; con il presidente Andrzei Duda del partito Diritto e Giustizia – nella tomba di Highgate, certo Orwell sorride amaro – Meloni auspica un “ribaltone” che dia il governo della Ue al duo fra Conservatori-Riformisti e Popolari. Intendono rompere l’accordo fra questi e i socialdemocratici che da sempre regge la Ue.

A Varsavia, i due han parlato di un’Europa “delle Patrie” che seppellirebbe definitivamente l’anelito alla “unione sempre più stretta”, perseguita fin dal trattato di Roma (1957).

Corollario di tale anti-storico nazionalismo è l’ostilità al progetto di una politica estera unitaria e un’industria militare comune per la Ue.

Di qui la netta avversione alla linea perseguita, a fatica, dal presidente francese Emmanuel Macron, che non a caso Meloni non trova il tempo d’incontrare.

Il nostro piccolo establishment ama regalarci pensose riflessioni sulle nostre arretratezze; primeggia fra queste la sua pavidità, e la gestione familistica di tante imprese. Sarebbe utile un veloce ripasso degli eventi del XX secolo.

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Salvatore Bragantinieconomista

Economista, già vice direttore generale di Sofipa SpA, poi direttore generale di Arca Merchant SpA, commissario Consob dal 1996 al 2001. È stato amministratore delegato di Centrobanca dal 2001 al 2004. Fino al 30 giugno 2016 ha fatto parte del Securities Market Stakeholder Group che assiste l’Esma – European Securities Markets Authority – nelle misure di attuazione delle direttive dell’Unione europea. Attualmente è presidente di Indaco Ventures SGR. Editorialista prima di Repubblica e poi del Corriere della Sera, attualmente collabora con il quotidiano Domani. Ha scritto Capitalismo all’italiana. Come i furbi comandano con i soldi degli ingenui (1996) e Contro i piranhas. Come difendere le imprese da soci e manager troppo voraci (2018), entrambi editi da Baldini+Castoldi.

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