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La Cina dà “pieni poteri” ai fondi globali di investimento

La leadership di Pechino apre ai grandi fondi internazionali, che spera possano favorire una ripresa massiccia degli investimenti in Cina, in un 2023 che – messe da parte le restrizioni della politica “contagi zero” – si prevede più che positivo per la seconda economia del pianeta.

Accogliendo una richiesta pendente da oltre due anni, la China securities regulatory commission (Csrc) ha dato l’ok all’acquisizione da parte di JPMorgan del pieno controllo del China international fund management (Cifm), di cui attualmente detiene il 49 per cento.

JPMorgan asset management (Jpmam) – la divisione della società statunitense che sovrintende alla gestione di fondi – ha fatto sapere che il Cifm (che gestisce patrimoni per oltre 170 miliardi di yuan, circa 25 miliardi di dollari) sarà integrato nella sua rete operativa globale.

I progetti della compagnia leader nei servizi finanziari evidenziano come la “economia socialista di mercato” (shèhuìzhŭyì shìchăng jīngjì) si stia legando sempre di più alla finanza globale. Quello cinese potrebbe diventare presto il principale motore di crescita di JPMorgan, che attraverso un comunicato ha chiarito che «il nostro obiettivo strategico è far crescere in modo significativo Jpmam China, affinché diventi il ​​principale gestore patrimoniale estero in Cina, e contribuire a trasformare Jpmam nel principale gestore di asset cinesi per gli investitori globali».

Basta joint-venture

Ma non c’è solo JPMorgan. La Csrc ha approvato l’allargamento delle attività anche della britannica Standard Chartered, che inaugurerà un’unità che si occuperà di fondi comuni d’investimento. E dopo che nel 2021 la BlackRock è diventata la prima società di investimento a cui le autorità di Pechino hanno concesso la possibilità di operare senza l’obbligo di costituire una joint-venture con una compagnia locale, negli ultimi giorni anche lo stesso permesso è stato garantito al Neuberger Berman Group, alla Fidelity International e al tedesco Schroders. Già a novembre alla canadese Manulife Financial è stato accordato il completo controllo sui propri fondi d’investimento in Cina.

Dong Shaopeng, ricercatore presso il Chongyang institute for financial studies dell’università Renmin ha spiegato: «La Cina accoglie istituzioni finanziarie straniere con solide operazioni e buone qualifiche per partecipare al mercato cinese, e si prevede che altre società finanziarie straniere entreranno in Cina a un ritmo costante nel 2023». Il settore dei fondi comuni d’investimento in Cina vale ormai 26.000 miliardi di yuan (3.800 miliardi di dollari), è affollato da 150 operatori, ma il suo giro d’affari potrebbe più che raddoppiare entro il 2030.

Oltre a quello dei fondi comuni d’investimento c’è il mercato dei fondi pensione privati, ai quali il governo di Pechino ha dato il via libera a fine settembre, un mercato nel quale dovrebbero affluire ogni anno 54 miliardi di yuan (poco meno di 8 miliardi di dollari).

La strategia di Xi

Secondo Peter Alexander, a fare da apripista è stato Black Rock: «All’inizio del 2020, molte compagnie globali non avrebbero nemmeno sfiorato la Cina – ha raccontato a Bloomberg il direttore della shanghaiese Z-ben Advisors – ma le cose sono cambiate di 180 gradi dopo l’approvazione data a Black Rock nell’agosto di quell’anno».

A rendere più appetibile il mercato cinese dei capitali in questo 2023 è il rischio che la politica monetaria restrittiva della Federal Reserve e della Bce contribuisca a scatenare una recessione negli Usa e in Europa nella seconda metà dell’anno, mentre il Pil della Cina dovrebbe crescere intorno al 5 per cento. Da fine ottobre, dopo la chiusura del XX congresso del partito comunista, l’indice Csi 300 che raggruppa le azioni più scambiate nelle borse di Shanghai e Shenzhen è cresciuto del 23 per cento, con le compagnie tecnologiche che hanno fatto registrare un +46 per cento.

La mossa della leadership di aprire ulteriormente la Cina alla finanza internazionale – sotto l’occhio vigile delle authority controllate dal partito – ha un obiettivo immediato, uno di medio termine e uno più strategico. Il primo risponde all’esigenza di immettere linfa vitale in compagnie il cui valore azionario tra il 2021 e il 2022 ha perso oltre 2.000 miliardi di dollari.

In secondo luogo le concessioni del partito comunista al capitale finanziario transnazionale soddisfano una delle richieste che i paesi occidentali, da anni, fanno a Pechino. Infine attirare più investimenti serve a mantenere la Cina agganciata alla cooperazione globale.

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Michelangelo Cocco

Analista politico del Centro studi sulla Cina Contemporanea. Ex corrispondente da Pechino per il quotidiano il manifesto, è autore di Una Cina “perfetta” – La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale (Carocci editore, 2020) e Xi, Xi, Xi – Il XX Congresso del Partito comunista e la Cina nel mondo post-pandemia (Carocci editore, 2022). Vive tra l’Italia e la Repubblica popolare cinese.

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