Come se si fosse tornati al Medioevo. Gli scontri avvenuti a margine della partita di Champions League fra Napoli e Eintracht Francoforte ci consegnano una verità che cambia in modo definitivo il quadro interpretativo sui gruppi ultras più radicali.
Queste fazioni organizzate hanno alzato il tono dello scontro e il loro obiettivo primario è la conquista del territorio nemico, da violare e devastare in applicazione di una logica che è al tempo stesso materiale e simbolica.
Cioè, si provoca danni che sarà difficile e costoso riparare, ma al tempo stesso si incide un segno nella coscienza e nella memoria della comunità locale violata, che da quel momento in poi perde le certezze sul senso di inviolabilità che le strutture d’ordine e controllo predisposte nel corso dei secoli dallo stato moderno hanno provato a consolidare.
E che tutto ciò avvenga col pretesto di una partita di calcio fa tornare con la memoria ai giochi medievali pre-civilizzati di cui parlano Norbert Elias e Eric Dunning nell’ormai classico saggio sulla sportivizzazione dei loisir, con particolare riferimento a un gioco allora denominato “hurling to the country”.
La sfida, di cadenza rituale annuale, coinvolgeva le popolazioni di due villaggi separati da un vasto territorio di campagna, e l’obiettivo delle due fazioni era portare un oggetto dalla vaga forma sferica entro le mura del villaggio opposto.
Praticamente era una simulazione della guerra di conquista territoriale, che si trasformava nel pretesto per regolare con la violenza i conti personali maturati durante l’annata.
Da allora la sportivizzazione dell’hurling in forme di conflitto disciplinato e metaforizzato come il rugby e il calcio ha fatto sì che tutto si risolvesse in una disputa non violenta e per procura, con le popolazioni delle comunità a regolare e esprimere da spettatrici una partecipazione dal carattere esclusivamente emotivo.
La palla e la disputa sono sul campo da gioco, che rimane l’unico territorio da conquistare e violare vicendevolmente.
La difesa civile fra due fuochi
Ma adesso scopriamo che quel meccanismo di metaforizzazione non funziona più. E che la conquista del territorio torna a essere l’obiettivo primario delle fazioni ultras, specie da quando gli stadi sono stati trasformati in luoghi nei quali lo scontro tra fazioni è diventato quasi impossibile.
Che ciò significhi avere anche estirpato la violenza è un’illusione che hanno smesso di alimentare anche in Inghilterra, dove pure fanno un vanto di avere impresso una forte svolta sicuritaria allo spettacolo del calcio. E invece sanno bene che la violenza si è soltanto spostata altrove, lontano da impianti sempre più sterilizzati e darwinianamente sfollati dei membri delle classi ex operaie (identificate tout court come serbatoi dell’hooliganismo) grazie alla leva economica: biglietti costosissimi e spettacolo del calcio trasformato in passatempo alla portata delle classi affluenti.
E se la malapianta della violenza da radicalismo calcistico non è stata estirpata nel paese che ritiene di doverne fare un vanto, figurarsi altrove.
In questo quadro nasce la “territorializzazione” della violenza ultras. Ossia l’adozione di tattiche da violenza urbana che glorifica il raid nel territorio nemico, tramite l’adozione di tattiche paramilitari. E che nell’applicare ciò sfrutta la debolezza delle difese civili dello stato, non concepite per fronteggiare un attacco di tipo paramiltare e costrette immediatamente a dismettere le funzioni di controllo e repressione per assumere quella di interposizione.
Perché a quel punto tocca loro evitare lo scontro fra i gruppi invasori e quelli locali, evitare che lo scontro degeneri in guerra urbana tra una forza d’invasione e una forza d’auto-proclamata difesa territoriale.
E prese lì nel mezzo le forze di polizia, quelle che per definizione sociologica sarebbero titolari del “monopolio d’esercizio di violenza legittima”, devono contenere e tutelare, assorbire di fatto le violenze incrociate delle due fazioni per evitare che si fondano in scontro bellico.
Le falle del controllo
In tutto ciò si scopre che le capacità di controllo e prevenzione mostrano falle preoccupanti. E che non si tratta di un problema soltanto italiano.
Proprio la mitizzata Inghilterra dovette affrontare una serata di estrema tensione in occasione di una gara di Europa League dell’ottobre 2017 fra Arsenal e Colonia. Nonostante i biglietti messi a disposizione della tifoseria ospite fossero soltanto 2.900, i sostenitori del Colonia si presentarono a Londra in 20mila e sfilarono per le strade della città incuranti di ogni divieto. E senza che le forze di sicurezza di entrambi i paesi avessero avuto modo di arginare il rischio. Prodigioso che in quell’occasione non siano accaduti incidenti di rilievo.
La scena si è ripetuta mercoledì a Napoli, con la partita eletta a pretesto per una strategia di conquista territoriale affinata grazie a alleanze con tifoserie italiane nemiche della tifoseria napoletana (a sua volta alleata con la tifoseria del Borussia Dortmund, nemica della tifoseria dell’Eintracht).
Ma non meno significativo è stato il raid dello scorso febbraio compiuto da ultras della Stella Rossa Belgrado (alleati degli ultras napoletani) ai danni del gruppo romanista dei Fedayn, nel loro territorio. Con tanto di striscione rubato e successivamente bruciato al Marakàna di Belgrado.
Un raid di pura conquista che secondo gli analisti ha rotto definitivamente i codici d’onore ultras. E senza che le forze di polizia di entrambi i paesi avessero avuto sentore di quanto stava per accadere. Si scopre così che il fenomeno sfugge ai radar. E che il cosiddetto “controllo del territorio” rischia di diventare l’ultimo mito di una medernità calante.
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