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Israele, l’unica minaccia alla democrazia è il tentativo di sovvertire il voto – De Filippo, Punzi

Dopo mesi di accese proteste popolari – spesso sfociate in scontri con le forze dell’ordine intorno ai palazzi istituzionali, inclusa la residenza del premier – Benjamin Netanyahu ha annunciato il rinvio della seconda e terza lettura della discussa riforma giudiziaria alla sessione estiva della Knesset. Un rinvio, dunque, per “favorire il dialogo”, non un ritiro.

Larga parte delle accuse delle opposizioni e di parte dell’opinione pubblica contraria alla riforma si basa sulla volontà del premier israeliano di limitare il potere decisionale della Corte Suprema israeliana, imponendole il rispetto delle scelte della Knesset, di fatto l’impossibilità di sovvertire le scelte politiche della maggioranza di governo pro tempore, democraticamente eletta.

E ovviamente immancabile l’accusa di voler sottomettere il potere giudiziario per evitare il processo e una eventuale condanna, che metterebbe fine alla sua lunga carriera politica.

La “rivoluzione giudiziaria” di Barak

Va detto che attualmente il potere della Corte Suprema israeliana è pressoché senza limiti, i suoi margini di manovra sono indefiniti, non essendo fissati da una Costituzione (che Israele non ha), né da una legge.

La Corte si è auto-attribuita tale potere, motu proprio, all’inizio degli anni ’90, quando l’allora presidente Aharon Barak annunciò che anche in assenza di una Costituzione formale, la Corte avrebbe potuto invalidare le leggi e bloccare le iniziative del governo, in quella che definì lui stesso “rivoluzione giudiziaria”.

La Corte si è anche attribuita il potere di porre il veto alle iniziative del governo ritenute semplicemente “irragionevoli” e ha dichiarato che qualsiasi direttiva emanata dall’Attorney General è giuridicamente vincolante per l’Esecutivo, facendo di tale figura un capo di governo de facto e non solo il suo consulente legale.

Anche le modalità di selezione dei giudici nei tribunali soffrono di squilibri, essendo selezionati da una commissione in cui giudici della Corte Suprema e rappresentanti dell’ordine degli avvocati sono la maggioranza.

Il governo dei giudici

Questa è la situazione attuale in Israele. Una Corte Suprema fuori controllo, una sorta di Consiglio dei Guardiani che ha l’ultima parola su tutte le decisioni politiche del Paese. E qualcuno teorizza addirittura che rientrerebbe nei suoi poteri deporre il premier.

La riforma del governo Netanyahu prova a correggere questa anomalia, sia pure con modalità che è legittimo discutere e contestare. Ma le legittime preoccupazioni su alcuni aspetti della riforma non possono essere una scusa per mantenere un sistema, de facto, di “governo dei giudici”, che non è mai stato votato né dal popolo né dalla Knesset.

Questo il tema. La sinistra vede nella Corte e nel potere giudiziario un baluardo a difesa della propria agenda e un’arma politica contro le destre. Ma ricorrere a mezzi non elettorali, a pressioni esterne al sistema, per fare opposizione e abbattere i governi, porta ad una perdita di fiducia nella democrazia da parte degli elettori, come dovremmo ben sapere in Italia.

Doppio standard

In democrazia la legittimità dei governi deriva dal voto, non dai giudici o dalle piazze. Ma sembra che per qualcuno il concetto valga a intermittenza. Sembra valere, per esempio, per il presidente francese Emmanuel Macron, in questi giorni alle prese con le proteste violente contro la riforma delle pensioni.

Ma non sembra valere altrettanto per Netanyahu, la cui principale “colpa” pare essere quella di essere riuscito a risorgere dopo la caduta del suo ultimo governo nel 2021, che aveva comportato la celebrazione (evidentemente precoce) del suo funerale politico.

Il solito doppio standard dei nostri media mainstream, a seconda del grado di simpatia verso esecutivi e leader sotto attacco. Nel caso di Netanyahu, uno dei leader più odiati dell’intero Occidente, insieme a Trump e Johnson, la solidarietà lascia spazio al linciaggio mediatico ed il premier israeliano viene equiparato ad autocrati come Vladimir Putin o Nicolas Maduro, quasi fosse necessario o comunque in fondo tollerabile deporlo tramite mezzi non elettorali.

La legittimazione del voto

Si possono ovviamente avanzare critiche all’attuale coalizione di governo e allo stesso Netanyahu, ricordando che il libero confronto – anche acceso e polarizzato – è una delle ragioni per cui essere fieri della democrazia. E non va mai dimenticato che in una polveriera densa di autocrazie e stati canaglia come il Medio Oriente, Israele è l’unico Paese democratico dell’intera regione, dove si può sfilare contro il governo e invocare l’incriminazione e l’arresto del premier.

Tuttavia, con la stessa franchezza, bisognerebbe riconoscere che il Likud e la coalizione guidata da Netanyahu hanno dedicato ampio spazio in campagna elettorale alla necessità di approvare una riforma della giustizia, presentandola come il primo grande risultato che il governo avrebbe raggiunto.

L’esito elettorale – che ha visto il Likud riaffermarsi ampiamente come primo partito nazionale e la coalizione di governo raggiungere una maggioranza di 64 seggi su 120 alla Knesset – dovrebbe suggerire maggiore cautela sulle scelte dell’Esecutivo, in carica grazie ad un considerevole successo ottenuto democraticamente.

Minacce alla sicurezza

L’attuale crisi politica e istituzionale non è priva di conseguenze per la sicurezza di Israele, sia sul piano interno che estero, nel breve e nel medio termine. In primis, l’indebolimento del governo Netanyahu e l’instabilità a Gerusalemme incoraggiano il fronte palestinese, che siamo certi coglierà l’occasione per colpire nuovamente lo Stato ebraico con azioni terroristiche, e la teocrazia iraniana.

In un momento storico in cui Teheran si avvicina alla bomba atomica e ha raggiunto l’apice dei toni minacciosi, Israele non può permettersi di dare l’immagine di una nazione drammaticamente divisa, debole e in crisi istituzionale. Uno dei motivi che ha suggerito a Netanyahu il rinvio.

Nel momento in cui dovesse rendersi necessaria un’azione militare preventiva contro i siti nucleari iraniani, il governo avrà bisogno di una società unita e di tutta la compattezza necessaria all’interno di istituzioni e apparati.

Gli errori Usa

In una fase tanto difficile e delicata per Gerusalemme, pesano in maniera irreparabile gli errori dell’amministrazione Biden nella politica mediorientale. Aver irritato e allontanato l’Arabia Saudita ha aperto insperati margini di manovra all’Iran, la più grande minaccia esistente per lo Stato ebraico, in cui si è inserita abilmente la Cina, mediando una normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi.

Così come un errore si è dimostrato aver frettolosamente aperto la discussione su un nuovo accordo sul programma nucleare iraniano. Teheran non ha mai rispettato alcun accordo sui limiti di uranio arricchito ed è sempre più vicina alla fabbricazione della bomba.

Washington ha preso coscienza in ritardo dei propri errori e pare adesso impegnata a frenare gli istinti autodifensivi di Israele, più che quelli aggressivi di palestinesi e iraniani: le critiche rivolte al governo israeliano in occasione della visita del ministro Ben Gvir al Monte del Tempio e degli attacchi mirati ai terroristi di Hamas, e l’ingerenza sulla riforma della giustizia, denotano la preoccupazione Usa di non riuscire a gestire una escalation militare nella regione.

Impegnata nell’Indo-pacifico a causa delle minacce atomiche di Kim Jong-Un e di Pechino a Taiwan, oltre che nel continente europeo nel sostegno militare – sia pure indiretto – alla causa ucraina, un conflitto su larga scala in Medio Oriente sarebbe molto complesso da gestire per la Casa Bianca.

Anche in ragione di ciò, l’amministrazione Biden avrebbe dovuto mantenere alta la deterrenza e stretti i rapporti con gli alleati nella regione, provando ad anticipare le crisi piuttosto che rincorrerle. Errori che ora rischiano di costringere Israele a difendersi da solo dinanzi alle minacce – interne ed esterne – che mettono a rischio la sua stessa esistenza.

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