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Il rumore visivo delle opere di Artemisia Gentileschi

La raccolta di dipinti del periodo napoletano di Artemisia Gentileschi nella sede delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo di Napoli mantiene la promessa: come la precedente Artemisia Gentileschi e il suo tempo, tenutasi a palazzo Braschi a cavallo tra il 2016 e il 2017, anche questa è una mostra imperdibile.

A Napoli appena si entra nelle sale del palazzo del Banco di Napoli, edificio progettato alla fine degli anni Trenta da Marcello Piacentini e adesso riconfigurato come museo espositivo da Michele De Lucchi, il primo quadro di Artemisia che il visitatore incontra è una versione dell’Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria.

«Il giusto fiorirà come la palma» recita il Libro dei Salmi (9-12), ed è con un ramo di palma in mano che ci accoglie Artemisia nell’autoritratto che apre il percorso della mostra, dedicata al periodo in cui la pittrice visse e lavorò a Napoli.

La tela, acquisita nel 2018 dalla National Gallery di Londra, viene esposta per la prima volta in Italia. È stata dipinta a Firenze, molti anni prima del lungo soggiorno napoletano, ma ci racconta molto della personalità di questa artista che, ancora molto giovane, ha idee chiare sul proprio ruolo. 

Imporre sé stessa

Artemisia si autoritrae nelle vesti della santa a mezzo busto e di tre quarti, con lo sguardo rivolto allo spettatore, e riesce a farci vedere nello stesso tempo Caterina, ferma nella certezza della sua fede, e sé stessa, sicura delle proprie qualità di grande pittrice.

Il ramo di palma che per Caterina è il simbolo del martirio, ma anche della sua vittoria dialettica su cinquanta saggi pagani, tra le dita di Artemisia mantiene il suo significato simbolico ma evoca anche un pennello.

Come Caterina riesce con la sua fede e le sue parole a convertire i retori pagani, così Artemisia sta imponendo sé stessa e la sua arte in un mondo prettamente maschile. La ruota dentata spezzata su cui Caterina posa la mano sinistra ci racconta della tortura subita dalla santa, interrotta dall’intervento divino – Caterina sarà poi decapitata – ma ci suggerisce qualcosa anche della tortura che l’artista ha patito ai tempi del processo per lo stupro perpetrato dal pittore Agostino Tassi, di cui fu vittima. La storia è nota ed è su questa vicenda della vita dell’artista che molti hanno basato la lettura della sua opera.

Donne forti

I curatori della mostra napoletana – Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio, che si sono avvalsi della consulenza di Gabriele Finaldi – hanno preferito dare meno peso alle vicende biografiche dell’artista per focalizzare la propria attenzione sulle qualità pittoriche e sulle sue capacità di creare relazioni in un mondo dominato da figure maschili poco inclini a concedere a una donna artista lo stesso status riconosciuto a un pittore.

Certamente colpisce il fatto che Artemisia abbia dipinto donne che decapitano uomini, come in Giuditta e Oloferne, o donne ricattate, come in Susanna e i vecchi. Nel XVI e XVII secolo questi temi sono frequentati anche da altri artisti, ma in Artemisia finiscono per assumere un peso diverso proprio per le sue vicende personali.

In Susanna e i vecchi, dipinto due anni prima della sua morte, i due anziani che sorprendono Susanna al bagno si affacciano da un parapetto verso la giovane donna. Uno dei due le intima di fare silenzio, portandosi l’indice davanti alla bocca. Nel racconto biblico, Susanna non accetta il loro ricatto sessuale e verrà accusata ingiustamente di essere stata sorpresa con un giovane amante, ma i due saranno smascherati.

C’è un’aria notturna e cupa sulla rappresentazione, illuminata dalla pelle e dalla veste bianca della protagonista femminile, che esprime un’idea di purezza.

Come scrive Sheila Barker in uno dei testi in catalogo, Artemisia ha spesso dato immagine a «donne forti» che hanno la meglio sui maschi, incarnando così l’emancipazione dal patriarcato.

Le tele che conosciamo di Artemisia, che raffigurano suicidi sono cinque e hanno come soggetto Cleopatra e Lucrezia, entrambe vittime del patriarcato. «In un’epoca di espansione dell’impero, e di ampliamento delle monarchie», scrive Barker «i suicidi di Artemisia – donne che rispondevano con razionalità e coraggio all’ingiustizia dei tiranni nell’intimità delle loro stanze da letto – erano non solo testimonianze del malcontento “femminista” ma anche i simboli, sotto un velo dissimulatore, di atteggiamenti di dissenso più vasti e pericolosi».

Il linguaggio si fa contenuto

Ma quali che siano i personaggi e le storie attorno a cui ruota la figurazione di Artemisia e quella dei pittori suoi contemporanei in mostra a Napoli, il vero soggetto di queste opere è il Barocco.

Una volta che il tempo ha messo distanza tra noi e l’opera, il valore estetico prevale sul contenuto, lo stile e il linguaggio divengono essi stessi soggetto del dipinto, in quanto incarnano tutte le ragioni della loro unicità.

Ogni periodo storico si riconosce in un linguaggio che risente dello spirito del proprio tempo, il Seicento guarda all’atmosfera religiosa della Controriforma, ma apre anche alla rivoluzione scientifica.

In Caravaggio si possono cogliere entrambi questi aspetti: la drammaticità dell’esperienza religiosa e l’approccio scientifico al modo in cui la luce si manifesta nello spazio vissuto. Al di là del soggetto, dunque, quando ci si accosta a un dipinto del Seicento, il linguaggio, informandoci del periodo storico in cui è nata l’opera, si fa contenuto: più l’opera è lontana nel tempo più i simboli utilizzati dall’artista si disperdono e al testo originario se ne sostituisce un altro che guarda più alla forma e alla grammatica del linguaggio che alla narrazione messa in scena. Il quadro diviene così il luogo in cui un’immagine incrocia un’epoca.

Ma torniamo all’autoritratto come santa Caterina. A coprire la testa del soggetto femminile è un drappo, da cui spuntano i raggi di una corona su cui aleggia un’aureola. Nel quadro la corona e l’aureola simboleggiano le origini regali di Caterina e la sua santità. In tempi recenti un altro artista che ha dovuto lottare per la sua affermazione, Jean Michel Basquiat, ha associato la simbologia della corona e quella dell’aureola. Artemisia si è imposta con la sua personalità e il suo talento in un periodo in cui non era facile essere donna e pittrice, Basquiat lo ha fatto negli anni Ottanta del XX secolo in un ambiente non molto incline ad accettare il successo di un artista nero.

Anche nella mostra di Napoli (aperta al pubblico fino al 19 marzo), come spesso accade in tutte quelle dedicate ai maestri del passato, le luci basse e le pareti scure ci dicono che stiamo facendo un viaggio a ritroso nel tempo.

Le luci basse nascono dall’esigenza di non corrompere la pittura più di quanto non abbia già fatto il tempo. Il pittore Émile Bernard ha raccontato che Paul Cézanne possedeva un piccolo dipinto di Delacroix che teneva appeso nella sua casa di Aix-en-Provence con la superficie pittorica rivolta verso la parete, in modo che la luce non ne corrompesse la luminosità. È bene evitare che la luce ossidi la pittura, certo, ma nel contempo il messaggio che si ricava dal modo in cui sono presentate queste opere è che la grande arte del passato richiede concentrazione e silenzio.

Eppure, è più il rumore visivo che il silenzio che si percepisce nelle opere di Artemisia, quasi volessero difendersi dalla loro storicizzazione. Appare evidente l’irrequietezza di un’artista che tende a continue fughe in avanti, sicché in alcuni dettagli si possono ravvisare non solo influenze, ma anche improvvise apparizioni che fanno pensare al neoclassicismo settecentesco o al realismo ottocentesco.

La sua non è una pittura statica, non tende alla continuità stilistica, Artemisia si mette spesso in discussione. Per alcuni questo è un pregio, per altri un difetto, in quanto apre a una discontinuità che rende l’artista più permeabile alle influenze. Artemisia si distacca così dall’unità linguistica del padre Orazio, di cui nel 2023 avremo modo di vedere i dipinti raccolti in mostre a Brescia e a Bergamo.

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