L’identità di una “sinistra di governo”. Un sogno nel cassetto che fa fatica, e non da oggi, a trasformarsi in realtà politica. È il “sogno” di Claudio Petruccioli, una vita nel Pci, più volte parlamentare, direttore de L’Unità e presidente della Rai.
La parola più gettonata a sinistra, anche nel “nuovo Pd” targato Elly Schlein è “identità”. Come la mettiamo?
È così. Oggi a sinistra è tutto un parlare di identità, tutti alla ricerca dell’identità, del recupero o della scoperta dell’identità, delle radici, vecchie o nuove, dell’apertura di orizzonti, della necessità delle utopie, dell’importanza dei profeti…Non nego di essermi intruppato anche io, qualche volta, in questo rumoroso e – almeno fin qui – inconcludente disordine. Ma al momento sono diventato minimalista. Per carità, non chiedo a nessuno di ridurre le proprie attese, le proprie ambizioni, i propri traguardi. Sono io che riduco al minimo quel che a me sembra indispensabile: non vorrei altro che prendesse corpo, evidenza, coscienza e sicurezza di sé una sinistra di governo. Tre parole che mi permetto di segnalare a Carlo Cottarelli che, in una intervista al Corriere ci informa di esserne in cerca. Ah! a scanso di equivoci chiarisco che per brevità uso i termini “destra” e “sinistra” al posto dei più lunghi centro-destra e centro-sinistra (o destra-centro e sinistra-centro)
La sua “utopia” si chiama sinistra di governo. In cosa consiste?
Con sinistra di governo intendo un aggregato politico coerente, con un programma condiviso e una leadership forte e accettata da tutti; che si propone – in competizione con uno schieramento opposto – di ottenere il mandato della maggioranza dei cittadini; esattamente per svolgere la “funzione” di governare per un periodo definito. Nulla di meno e nulla di più, c’è poco da elucubrare: o sei capace di svolgerla o non lo sei. E, prima ancora: o ti proponi di esserlo, oppure no. Oggi non vedo nessuno che se lo proponga. Sento continui richiami per essere alternativi alla destra. Bene: non riesco a concepire una sinistra che sia più di questa alternativa alla destra. Una sinistra così non sta sempre al governo, perché non c’è democrazia dove non è possibile il ricambio nel governo: ma quando sta all’opposizione pensa agisce e lotta per tornare a governare alla prima occasione. Una sinistra così in Italia non c’è mai stata.
È sempre stato così?
Lasciamo stare prima del fascismo, quando la sinistra era largamente massimalista. Nei decenni etichettati come prima repubblica c’è stata una sinistra al governo (dai primi anni ’60 il Psi) e, senza interruzioni, una sinistra (il Pci) o “di” o “alla” opposizione. Sia l’una che l’altra influiva, in modi diversi, sulla vita nazionale e anche sulla condotta dei governi. Ma, appunto, influiva, condizionava; era una sinistra di influenza, di pressione, non di governo. Negli ultimi tre decenni una sinistra di governo è comparsa per poco più di due anni, dalle elezioni del 1996 alla caduta del governo Prodi. Poi cambiarono governi maggioranze e presidenti del consiglio. Dopo Prodi si insediarono a Palazzo Chigi due personalità come D’Alema e Amato, ma nelle elezioni successive del 2001 nessuno dei tre si presentò come candidato premier. Il contrario di quel che avviene con una sinistra di governo.
E dopo che è successo?
La partecipazione ai diversi governi successivi è avvenuta o in nome del postulato “senza di noi non si riesce a governare”, comprensibile solo in un sistema che esclude l’alternanza; o per “impedire il governo di una destra pericolosa”. È stato questo il tema conduttore delle prime elezioni svoltesi con una legge elettorale maggioritaria, nel 1994, con il Pds di Occhetto come dell’ultima che ha preceduto il voto del 25 settembre 2022, con il Pd di Letta. Sarà un caso, o vuol dire che la sinistra di governo non c’è ancora?
Ma negli ultimi dieci anni il Partito democratico al governo c’è stato quasi sempre. Non era sinistra o comunque “sinistra di governo”?
Verissimo, negli ultimi dieci anni il Pd è stato quasi sempre nella maggioranza e al governo. Ma mai a seguito di una vittoria elettorale della coalizione e del leader con cui si era presentato agli elettori; con maggioranze le più diverse mai per propria autonoma decisione, sempre per obbligo, trascinato dalle circostanze, perché troppo debole o troppo confuso e incerto per prendere decisioni difformi dalle proposte che venivano avanzate dal Quirinale. Proposte obbligate dalla inefficienza, dalla vera e propria paralisi del sistema politico nel suo insieme, in cui spiccava la assenza di prospettive e la debolezza di direzione della sinistra. Fosse esistita una sinistra di governo degna di questo nome, quante volte – dall’incarico a Monti in poi – avrebbe chiesto che si pronunciassero gli italiani col voto invece di entrare, più o meno di malavoglia, nei governi? La vittoria non sarebbe stata certa; ma non c’è dubbio che il comportamento degli elettori, e anche il funzionamento del sistema politico, sarebbero stati diversi da quello che sono stati. Una vera e propria impotenza, se non paura di mettersi alla prova: è stata la causa prima dei successi populisti. Negli ultimi dieci anni non c’è stata sinistra di governo: ci sono stati governi che hanno imbarcato anche la sinistra.
E ora?
Siamo arrivati al capovolgimento caricaturale della favola sulla volpe e l’uva. La batosta del 25 settembre è stata motivata grosso modo così: siamo caduti dall’albero perché non avremmo dovuto salirci. La parola governo è diventata tabù e se viene pronunciata è per prenderne le distanze; come se sinistra e governo fossero come il diavolo e l’acqua santa. C’è chi la pensa così: ma allora ha il dovere di dire qual è il motivo per cui esiste la sua sinistra. La rivoluzione? Lo dica e dica anche come e per cosa farla. Soprattutto spieghi perché governare comporti necessariamente che ci si allontana anziché avvicinarsi agli obiettivi che si vogliono raggiungere. È una colossale corbelleria pensare che, se governa, la sinistra perde contatto con le realtà sociali più svantaggiate e più bisognose di sostegno; come se governare e avere rapporti con la società fossero cose incompatibili. Al contrario: se ci si allontana dalla società ci si allontana anche dal governo; e se si perde la prospettiva del governo si perde anche capacità di attrazione verso la società. Lo stesso obiettivo programmatico, la stessa parola d’ordine, se inseriti in una prospettiva di sinistra di governo forniscono carburante, spinta non solo per lo sviluppo di movimenti e lotte ma anche per alimentare una efficace politica generale, appunto di governo; al di fuori di quella prospettiva sono solo agitazione e propaganda.
È tale anche chiederle chi le piace di più tra i competitori a sinistra o nel tanto evocato “campo largo” delle opposizioni al governo delle destre?
È uno stress continuo. Con chi stai? Bonaccini, Schlein, Calenda, Cuperlo ecc. per arrivare perfino a Conte. Negli anni scorsi non era diverso, basta cambiare nomi. Né succede solo in Italia: Blair, Corbin, Sanders, Melenchon… Al posto dei nomi spesso si sventolano idee, usate come bandierine: radicali, riformisti, antagonisti… o anche i “contenuti” che – per carità – sono importanti, richiedono studio, confronto, chiarezza e invece tante volte fanno la fine dei segnaposto, per dire: io sono qui. Ecco, da tutto questo mi chiamo fuori; in questo consiste il mio minimalismo; mi limito ad indicare il criterio di verifica per valutare l’efficacia di idee, programmi e persone. Che è, appunto, la capacità di costruire e far vivere una sinistra di governo. Penso sia questo il banco di prova per la sinistra; e penso anche sia utile al mio Paese poter contare su una sinistra capace di esprimere davvero una alternativa di governo alla destra e faccia vivere così, in competizione con la destra, la democrazia dell’alternanza. Ecco, vorrei che a sinistra, fra chi si oppone alla destra, ci fosse una gara su questo terreno; oggi non lo vedo. Mi sembra che ciascuno si preoccupi della propria immagine, del proprio profilo. Auspico che questa gara si accenda davvero, pronto, senza alcun pregiudizio, a riconoscere i meriti di chi raggiunge il risultato, anche se fosse qualcuno per me sorprendente. Tutti conoscono il detto cinese “non importa di che colore è il gatto purché prenda il topo”. Quanta saggezza! Ma deve essere un gatto che vuole prenderlo, il topo, non qualche clericus vagans alla ricerca della piazza migliore per esibirsi.
Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
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