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Il Muppet Show del Pd alla ricerca di una bussola

«Questo spettacolo è orribile». «Spaventoso». «Disgustoso». «Torniamo ancora a vederlo?» «Sicuro». Ci vuole lo spirito di Statler e Waldorf, i vecchietti del Muppet Show, per rendere conto dello stato d’animo dell’elettore Pd all’indomani di un fine settimana che ha visto l’Assemblea costituente del “nuovo” partito e poi il primo faccia a faccia pubblico tra i quattro candidati alla segreteria da Lucia Annunziata su Rai 3 a Mezz’ora in più.

Nello stesso studio in cui, il 7 agosto, Carlo Calenda aveva annunciato che avrebbe strappato l’accordo stretto con il Pd di Enrico Letta appena quattro giorni prima, salutato improvvidamente come la Bad Godesberg del centrosinistra italiano da Repubblica.

Quel pomeriggio naufragarono le speranze di Letta di competere con Giorgia  Meloni, la lunga sconfitta del Pd cominciò da lì, il telefono del segretario uscente che non squilla più, ultima malinconica immagine della giornata di sabato 21, prima della chiusura dell’assemblea.

A commentare si rischia di fare – da elettori o da osservatori – la stessa fine dei vecchietti che dello spettacolo orribile, spaventoso, disgustoso, eppure impossibile da eliminare, erano parte integrante, come il coro in una tragedia.

Al termine della due giorni, gli osservatori-elettori-spettatori del Muppet Pd Show escono stremati dalla lettura del Manifesto per il nuovo Pd Italia 2030 – costato, parola di Letta, 52 ore di riunioni di discussione – da sette ore di Assemblea costituente in un auditorium in viale Manzoni spoglio di pubblico e di emozioni e da un’ora di confronto televisivo. E tentati di concludere che con un dibattito così al fondo mediocre nessun nodo del dopo 25 settembre potrà essere sciolto o almeno affrontato.

E che sta emergendo il paradosso estremo, finale del Pd: essere un partito politico, l’ultimo partito rimasto come amano ripetere, anzi, iper-politico, che però non riesce più a parlare di politica, a organizzare al suo interno un onesto, civile, e non distruttivo, conflitto politico, nonostante tutte le sovrastrutture impiegate in tal senso.

La bussola gira su sé stessa

Lo dimostra lo strumento scelto per ascoltare la voce degli iscritti. Doveva essere la Bussola, curata dall’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli. Tante risposte, e non certo per demerito dei ricercatori, riflettono un elenco di buone cose da fare, le stesse che riempiono il manifesto finale.

Ma la politica non è la gestione ordinata di un elenco, è l’invenzione di uno spazio che non si vede ancora. Così, in assenza di altre indicazioni, di una lettura, di un orientamento, la bussola gira su sé stessa.

E i 18mila iscritti che hanno risposto, il vero zoccolo duro di partecipazione di una comunità che al momento della fondazione, nel 2007, aveva potuto contare su tre milioni e mezzo di votanti alle primarie, messi di fronte alla questione esistenziale, identità o responsabilità, si sono divisi esattamente a metà.

«Il Pd si è trovato spesso di fronte a un bivio: da un lato la responsabilità di dover governare sacrificando in parte anche le proprie battaglie identitarie, dall’altro insistere sulle proprie battaglie identitarie a scapito della possibilità di governare», recitava per esteso la domanda chiedendo di indicare che fare.

Risultato: una spaccatura netta. Ma non era facile rispondere a una domanda malposta. Perché oggi il problema dell’(ex?) principale partito di opposizione al governo Meloni non è scegliere se stare al governo perdendo l’anima o se salvaguardare i valori rinunciando a un pezzo di potere, il Pd attuale, infatti, ha perso entrambe le cose, è senza governo e senza identità, e questo è il bivio che il dibattito congressuale finora non è riuscito ad affrontare.

Il decennio della non vittoria

Le primarie del 26 febbraio coincideranno esattamente con un decennale amaro. Le elezioni del 24-25 febbraio 2013, passate alla storia con la non-vittoria di Pier Luigi Bersani e del boom del Movimento 5 stelle, passato da zero al 25,5 per cento e 8,6 milioni di voti, il Pd si fermò al 25,4 per cento e 8,4 milioni.

Nelle settimane successive, l’elettore Pd fu sottoposto a una serie di traumi indimenticabili: in rapida successione, il fallito incarico di Bersani, sospeso da Giorgio Napolitano, le elezioni per il Quirinale, i 101 pugnalatori di Romano Prodi (e della segreteria Bersani), la nascita del governo di larghe intese con il Pdl di Silvio Berlusconi presieduto da Enrico Letta, l’ascesa alla segreteria di Matteo Renzi. La maledizione del bivio tra identità e responsabilità si abbattè sul Pd in quell’anno, ma era già cominciata molto prima.

«La crisi della sinistra nasce da qui: quando il Pci era all’opposizione aveva un progetto di governo, quando il Pds-Ds-Pd è andato al governo non ha avuto più un progetto, una direzione. Togliatti voleva andare democraticamente e gradualmente verso il socialismo, sarà stato sbagliato ma ora verso cosa si va? Verso niente! Tranne il povero Occhetto, sono tutti andati al governo, tutti ministri: D’Alema, Veltroni, Fassino, Livia Turco, Bassolino, Bersani, Mussi… ma senza un progetto, senza un orizzonte politico. L’obiettivo di stare al governo è scisso totalmente da un’idea di società», diceva il vecchio Emanuele Macaluso, al compimento dei 90 anni, in un’intervista all’Espresso.

Era il 21 marzo 2014, nel cuore del decennio del Pd partito al governo a ogni costo. Matteo Renzi il giovane era diventato presidente del Consiglio soltanto da un mese, da segretario del Pd, eravamo alla vigilia delle elezioni europee e del boom elettorale del partito renziano, il 40 per cento, e Macaluso aveva già capito tutto, ma proprio tutto: «Renzi è l’espressione più radicale dei tratti distintivi della Seconda repubblica: il prevalere dell’immagine e della comunicazione sul progetto. Arrivato a novant’anni, confesso, ho un’angoscia: se fallisce Renzi dopo di lui cosa c’è? Mi rispondo che non c’è niente. Renzi andrà a fare il botto, come si dice in Sicilia».

L’assemblea del 21 gennaio, che coincideva con l’anniversario della scissione di Livorno e della nascita del Pci, due anni dopo i funerali di Macaluso davanti alla sede della Cgil, ha confermato in pieno questa previsione.

Così il faccia a faccia in tv tra i candidati, tra tre emiliani (Stefano Bonaccini, Elly Schlein, Paola De Micheli) e un triestino (Gianni Cuperlo), che però ha subito citato il reggiano Giuseppe Dossetti – due dei quali (Bonaccini e Cuperlo) iscritti al Pci – è stato dominato dalla presenza al tavolo di due fantasmi post democristiani. Dario Franceschini e Matteo Renzi.

Franceschini inteso come il ministro per tutte le stagioni, con Letta e con Renzi, con Alfano e con Conte, fino a Draghi: oggi nel Pd appoggia Elly Schlein e gli sfidanti della candidata alla segreteria, per colpirla, hanno fatto di tutto per invocarlo senza nominarlo. Franceschini è il capo che non si candida nel suo territorio e corre in un collegio sicuro, secondo Bonaccini, è l’uomo che ha fatto «tutte le stagioni e tutte le parti in commedia» per Cuperlo.

Renzi inteso come l’uomo che ha fatto il Jobs Act e tutte le scelte degli ultimi calate dall’alto, per cui in tanti sono usciti», ha replicato Schlein, senza però affondare il colpo su Bonaccini e De Micheli che in quel Pd hanno avuto incarichi di governo e di partito regionale e nazionale.

Sono nomi che descrivono l’orizzonte del Pd finale: stare al governo a ogni costo, senza i voti e senza un progetto. Che non è limitato a Renzi o a Franceschini. Perché nel frattempo l’elenco degli ex Pds-Ds-Pd ministeriali stilato da Macaluso si è allungato (Orlando, Speranza, Provenzano…), ma la questione dell’orizzonte politico non si è risolto.

È questo il filo che lega tutte le anime e le correnti del Pd: la società e il paese (e l’elettorato) come luogo dell’ignoto, dello sconosciuto che fa paura e che è meglio evitare.

La strada in salita

È questo che ha tenuto insieme tutti i notabili del partito attorno a Renzi nel cuore del decennio governista: compresi i principali esponenti di Articolo 1 che poi uscirono dal Pd e che ora sono rientrati, ma che il 13 febbraio 2014, a partire dal capogruppo Roberto Speranza, votarono per far sloggiare Letta da palazzo Chigi e sostituirlo con il sindaco di Firenze e segretario. «Una fase nuova, con un nuovo esecutivo», recitava il documento, approvato con 136 voti a favore, 16 voti contrari e 2 astenuti.

I lettiani come De Micheli uscirono dalla sala per difendere il loro presidente del Consiglio. Bonaccini, responsabile enti locali della segreteria Renzi, votò ovviamente a favore. Cuperlo, candidato alla segreteria sconfitto e presidente del partito dimissionario, intervenne per dichiarare il suo appoggio a Renzi, pur chiedendo di evitare il voto in direzione.

Tra i pochi contrari intervenne una ragazza di 28 anni eletta in direzione con la mozione di Pippo Civati, Elly Schlein. Attaccò «l’elitarismo, il paternalismo, la nuova politica che assomiglia alla vecchia» del Pd, «l’operazione di palazzo», chiese di «non far calare le riforme dall’alto», parlò di legge elettorale e di eliminare la legge Bossi-Fini, come ha detto anche ieri in tv, contrappose alla frase di Robert Frost usata da Renzi sulla necessità di scegliere al bivio la strada meno battuta una citazione di Tiziano Terzani («la strada meno battuta è quella che va all’insù, in discesa alla fine ti trovi in un buco, solo in salita c’è la speranza»). E concluse con una profezia terribile, la stessa, in fondo, di Macaluso: «Se si brucia il segretario che io non ho votato, si brucia il Pd e se brucia il Pd va a rischio la tenuta del paese». Pochi mesi dopo fu eletta europarlamentare e poi uscì dal Pd.

È questo il percorso che legittima oggi Elly Schlein a candidarsi alla guida del Pd. A patto che sia esplicitato. Perché in questa storia del centrosinistra hanno perso tutti, i rientranti di ieri (Articolo 1) che non videro l’onda dei Cinque stelle arrivare e gli usciti di Renzi, che nella ascesa del loro capo a palazzo Chigi senza un voto hanno perso nel 2014 l’occasione storica di aprire un ciclo di governo legittimato dalle elezioni.

Tutto questo per dire che il bivio tra identità e responsabilità è stato più volte percorso in questi dieci anni, dall’annus horribilis 2013 di Bersani al 2023 con Meloni regnante. E che non è politica, non è confronto politico, la ripetizione di formulette banali, come diceva Pietro Scoppola, citato a sproposito anche in questi giorni.

«Non credo alla formuletta dei riformismi che si incontrano perché di riformismo in questo paese ce ne è stato poco per decenni», aveva detto lo storico cattolico a proposito del Pd il 17 marzo 2007. «Il riformismo italiano più che una espressione di grandi e forti tradizioni politiche è stato un fatto di élite illuminate. Il Pd ha radici profonde nella storia del paese o è una invenzione estemporanea, senza radici e perciò senza futuro?».

Una domanda che riflette la mancanza di politica di una parte di società, di intellettualità, di giornalismo, che si ripete in termini conformisti.

Nel frattempo i voti del Pd il 25 settembre 2022 sono diventati 5,3 milioni, il 19 per cento, quasi coincidono per numero con i 5,6 milioni di italiani che vivono in povertà assoluta, secondo l’Istat, e i 5,6 milioni (gli stessi?) che hanno rinunciato completamente a una prestazione sanitaria. Ma non sono la stessa fascia di popolazione, semmai una rappresentanza rovesciata.

Il Pd non c’è dove dovrebbe rappresentare questo pezzo di popolo ed è fin troppo presente in quelle fasce che non hanno bisogno della politica o che vivono la politica con l’osservazione dei vecchietti del Muppet Show. Cinica e disincantati, ma pur sempre aperti alla speranza. Che lo spettacolo possa cambiare.

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