Uno dei dettagli che meglio raccontano Call My Agent – Italia, remake italiano della serie tv francese Dix pour cent, ha la forma di una locandina: quella di Perfetti sconosciuti, nella sua versione coreana.
Com’è noto, il film di Paolo Genovese ha infranto ogni record, collezionando qualcosa come 25 remake (e altri ne seguiranno). Possiamo solo immaginare la soddisfazione di chi vi ha lavorato: regista, sceneggiatori, attori, produttori, maestranze.
Ma – e qui nasce la brillante intuizione narrativa di Lisa Nur Sultan, head-writer della serie, con cui ho avuto la gioia di scrivere due episodi – cosa sarebbe successo se uno sventurato addetto ai lavori, in una delle innumerevoli fasi che compongono la realizzazione di un film, avesse detto: «Signori, lasciamo perdere, questa cosa non funziona»?
In Call My Agent – Italia, quello sventurato è uno dei protagonisti della serie, Vittorio, autorevole socio della CMA, agenzia di talenti romana che si occupa di gestire le carriere dei più grandi nomi dello show business. È lui a cercare di dissuadere Paolo Genovese (che ha regalato alla serie un divertente cammeo) dal buttarsi in quello che si rivelerà il suo più grande trionfo.
Risultato? Vittorio viene scaricato, e la locandina del remake coreano viene appesa lì, a far da monito: attenzione, l’errore è dietro l’angolo. Monito per i nostri protagonisti, ma non solo: anche per noi che ci siamo trovati a lavorare a questo remake e proprio da quel monito siamo partiti.
Una questione di scelte
Scrivere è una questione di scelte, dalle più banali – che colore di capelli dono al mio personaggio? – alle più importanti – riusciranno i due protagonisti a coronare il loro sogno d’amore? (Si pensi a quanto diversa è la risposta che Manzoni ha dato ai suoi Renzo e Lucia rispetto a quella offerta da Shakespeare a Romeo e Giulietta). Ma scegliere significa soprattutto questo: esporsi al rischio dell’errore. Tra il tonfo e il trionfo si apre un labirinto di bivi che lo scrittore, dal più ingenuo al più esperto, affronta allo stesso modo: tremando.
E allora, con tutto questo in mente, come si lavora al remake di una delle serie tv di maggior successo degli ultimi anni? Ci si attiene alle linee tracciate dall’originale, riducendo la scelta e dunque l’errore? Oppure si tenta una strada nuova, correndo il pericolo dell’esplorazione?
Una doppia intenzione
Call My Agent – Italia nasce da questa doppia intenzione: cercare di rispettare l’anima di un prodotto che si è rivelato vincente (in termini emotivi, non solo commerciali) e provare a soffiarci dentro uno spirito nuovo che portasse nuove suggestioni, nuove sfumature e – questa era la speranza più grande – nuovo divertimento.
Ecco, proprio il divertimento, come succede spesso in ambito creativo, è stata la bussola che ha guidato il lavoro sulla serie. Che cosa mi diverte? Che cosa ci diverte? Ma, soprattutto, cosa diverte loro, le nostre star?
È facile parlare con il senno di poi, registrando l’ottima accoglienza che è stata riservata alla serie, ma c’è stato un momento in cui si è fatta palpabile la sensazione che potesse venir fuori qualcosa di buono. È stato quando i talenti coinvolti (mi limito a citare i protagonisti di puntata, ma tanti altri ci hanno regalato l’onore di un’apparizione: Paola Cortellesi, Paolo Sorrentino, Pierfrancesco Favino, Stefano Accorsi, Matilda De Angelis, Corrado Guzzanti) hanno accettato di giocare, e di farlo fino in fondo, regalando il loro volto e soprattutto il loro nome a una serie di “gemelli maligni” che raccontassero i difetti e le assurdità del mondo del cinema, amato, venerato, idealizzato, eppure così profondamente umano, dove ogni emozione – per rubare le parole abusate dei reality – “è amplificata”, in questo modo assecondando l’insegnamento antico e difficile della parodia (meglio: auto-parodia), genere affettuoso e insieme caustico che rappresenta una delle forme più efficaci di indagine della realtà.
Così, vedere Matilda de Angelis, spesso esaltata dai social, divertirsi a esplodere di fronte al gioco al massacro dei social stessi; vedere Pierfrancesco Favino giocare con la sua reputazione di camaleonte del cinema, smitizzando una certa dedizione sacrale al lavoro; vedere Stefano Accorsi che ironizza sul suo workhaolism, saltando su e giù da un tavolo nel tentativo di interpretare contemporaneamente Giulietta e Romeo nel celebre dialogo del balcone; vedere Paola Cortellesi che riflette sulla mancanza di femminismo della etrusca Tanaquil, sbottando in un fatale: “Esticazzi! So’ etruschi”; insomma, vedere i nostri protagonisti mettere in scena la loro virtù che diventa vizio, è l’occasione per ridere, ma anche quella per raccontare le storture di un tempo in cui, sempre più spesso, sono proprio i cosiddetti VIP a dettare sogni e modelli.
Il finale
È il gioco che si nasconde dietro all’episodio che vede protagonista Paolo Sorrentino, che propone, tra gli applausi degli agenti, un’improbabile terza serie di The Young Pope da trasformare in The Lady Pope con una imprescindibile Ivana Spagna, mettendo in scena l’atteggiamento di cieca riverenza che spesso riserviamo ai personaggi pubblici, al punto di liberarci di ogni capacità critica (e quanto è stato prezioso avere avuto la partecipazione di Sorrentino alla scrittura del monologo sul cosiddetto entusiasmo immotivato: è la nota di personalizzazione che, spingendo sul circuito dell’iperreale, aiuta a centrare il bersaglio).
E allora ecco che il meccanismo dell’ultima puntata, che vede protagonista il meraviglioso Corrado Guzzanti in una personale rivisitazione del bartlebyano “preferirei di no”, diventa la risposta piccola, generale, quasi liberatoria, di fronte all’esasperazione di toni e situazioni che il mondo ci getta addosso. Riuscirà a sostenerla di fronte alle pressioni invincibili di chi gli sta intorno? Non spoileriamo. Certo è che, di fronte a ogni errore colpevole, i casi sono due: possiamo star lì a dannarci l’anima oppure andare verso la parete più esposta, appenderci un monito e decidere di ributtarci nella mischia, determinati a riprovarci, sempre alla ricerca della scelta giusta.
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