Salsa di soia per inzuppare il sushi, spaghettini saltati cinesi alla salsa di soia, tofu coreano condito con salsa di soia. Il nome è sempre lo stesso, ma le salse sono tutte diverse: da paese a paese, e anche da regione a regione. Ecco un piccolo prontuario per cominciare a distinguerle un po’ meglio.
La storia
Per parlare di salsa di soia, è bene partire dalle origini, ricordando che nasce in Cina. Quella che intendiamo oggi come salsa di soia, infatti, ha origine probabilmente intorno al 1500, ma è stata a lungo un prodotto riservato a imperatori e nobili. In antichità si fermentavano carni salate, con svariate metodologie, creando condimenti da diluire. Col passare dei secoli si aggiunse soia alla ricetta iniziale, diversificando così il tipo di proteina da tramutare in aminoacidi tramite la fermentazione.
Secondo Angela Leung, direttrice dell’Institute for the Humanities and Social Sciences all’università di Hong Kong, coordinatrice di un gruppo di ricerca sulla salsa di soia, solo alla metà del XVIII secolo, nel pieno della dinastia mancese dei Qing (1636-1912), la soia diventa alla portata di tutti. Questo fagiolo tondo, infatti, è originario della Cina del nord, terra ancestrale degli imperatori dell’ultima dinastia cinese.
Dinastia d’invasione, i mancesi cominciarono a sentirsi sicuri sul trono imperiale solo con il quinto imperatore della dinastia, Qianlong (1711-1799), che concesse ai contadini cinesi di insediarsi nelle pianure della Manciuria. Verso la fine del regno, Qianlong autorizzò l’esportazione dei magici fagioli verso Giappone e Corea, dando inizio all’èra della soia e dei suoi derivati: il latte di soia, il tofu in tutte le sue declinazioni, l’olio di soia, ma anche prodotti fermentati come la salsa di soia, il miso, il tempeh.
Le salse
Concentriamoci sulle salse di soia, scartando quelle che accelerano il processo di fermentazione con metodi chimici, per concentrarci sulla produzione tutta naturale: per quanto le tipologie e il gusto possa variare, il processo di fermentazione è simile ovunque questa sia prodotta. Sono le differenze dei tempi di fermentazione, di terroir, e quelle legate alle quantità degli ingredienti base o all’aggiunta di prodotti che possono conferire aromi aggiuntivi che portano alle varietà gustative. Innanzitutto, la soia viene bollita, mescolata a frumento (o, più raramente, orzo) e inoculata con dell’aspergillus oryzae, un tipo di fungo che cresce sul riso e che darà inizio alla fermentazione.
Una volta avviata la fermentazione, il composto viene messo in grandi barili di legno, ceramica o cemento, a cui viene aggiunta una brina di acqua e sale. Quanto? Visitando una delle poche aziende produttrici di salsa di soia naturale di Hong Kong, la Koon Chun, e chiedendo a Daniel Chan, bisnipote del fondatore, quale sia la proporzione di acqua e sale, mi è stato detto che «fa parte della formula segreta di famiglia». Quindi, accontentiamoci di sapere che varia da produttore a produttore, così come la lunghezza della fermentazione. Chi ha problemi di intolleranza al glutine non deve però rinunciare alla salsa di soia, ma può scegliere il tamari giapponese, derivato dal miso: il gusto è più dolce e morbido, e la consistenza leggermente più densa.
«In Giappone il tamari è considerato una salsa di soia a tutti gli effetti, in quanto risponde ai cinque criteri necessari per essere indicato come tale, dal metodo di produzione al colore alla percentuale di azoto», dice Izumi Nakayama, dell’Università di Hong Kong, parte del gruppo di ricerca sulle salse di soia.
La salsa di soia può essere più o meno densa, e ha un profilo gustativo altamente variabile. Alcune hanno leggere gradazioni alcoliche, altre sono pastorizzate più a lungo per eliminare ogni traccia di alcool. Già nella stessa Cina vi sono accentuate differenze regionali, con, grosso modo, salse più salate e liquide al nord, e una preferenza per condimenti più dolci e densi da Shanghai verso sud. Spesso, la quantità di aminoacidi è maggiore in quelle meno dolci.
Differenze regionali
Se amate farvi ispirare dalle ricette di blogger asiatici-americani, avrete notato che gli ingredienti elencano «salsa di soia chiara e salsa di soia scura». Molti di loro seguono una cucina cinese meridionale, diffusasi nel mondo grazie alla diaspora del Guangdong e del Fujian, e reperibile anche ad Hong Kong. «Le due salse di soia sono una delle caratteristiche distintive della nostra cucina», riflette John D. Wong, anche lui nel gruppo di ricerca sulla salsa di soia e specializzato nella produzione hongkonghese.
La salsa di soia chiara è più salata, ha un buon gusto di fagioli tostati più evidente, ed è scorrevole come acqua. Estratta per prima dai barili, ha spesso la dicitura Premium sull’etichetta. È quella che in Cina viene utilizzata di più per intingere involtini o ravioli. La salsa di soia scura, invece, è prodotta con l’aggiunta di zucchero o melassa: più densa e dolce, ha un colore molto scuro dà un colore ambrato ai piatti saltati. «La produzione di Hong Kong mostra l’importanza del terroir: viene fatta con fagioli importati dal Canada (un retaggio della guerra di Corea, quando Hong Kong era una colonia e quindi esclusa dall’embargo Usa sulle merci cinesi), zucchero coreano, sale australiano. Di Hong Kong ha l’acqua, e il sole a cui viene fatta fermentare».
La salsa di soia taiwanese, invece, si sta riproponendo oggi ai consumatori come salsa di soia artigianale, prodotta con fagioli di soia neri originari dell’isola, che erano stati accantonati per i più comuni fagioli gialli sotto l’occupazione giapponese (1895-1945).
Gusto e consistenza sono modulati attraverso l’aggiunta di zucchero, aromi naturali come liquirizia o anice stellato. Anche la Corea utilizza due salse di soia diverse, ma in modo del tutto diverso da Hong Kong o dal Guangdong: una è la whe ganjang, o salsa di soia regolare, che non deve essere confusa con la josean ganjang, o salsa di soia da zuppa, un liquido molto più chiaro e salato utilizzato per insaporire le zuppe senza scurirle.
La salsa di soia è onnipresente quasi ovunque a est dell’India: nel sud est asiatico si tratta di un cibo per lo più portato dalla diaspora cinese, anche se ogni paese l’ha adattata al gusto e alle necessità locali. A Singapore, oltre alle due salse della cucina cantonese, se ne trovano altre insaporite con aromi chimici o naturali, da utilizzare per piatti standard della cucina nazionale. Salsa di soia per riso al pollo, per esempio, dal gusto dolce e speziato. In Indonesia la salsa di soia si chiama kecap – non c’entra col ketchup – ed è densa e zuccherata.
Oggi, soprattutto in Giappone, Hong Kong e Taiwan, è possibile trovare salse di soia prodotte con metodi artigianali e su scala limitata. Come quella di Yuan’s, a Hong Kong, che vede una bottiglietta da 125 ml costare circa 25 euro, dal sapore distintivo, umami e nocciolato. Utilizza il raro metodo fujianese, in cui la soia è fermentata senza acqua, diluita solo dopo alcuni mesi.
Non deve stupire che sia il Giappone a sbizzarrirsi maggiormente: Nakayama racconta infatti che qui possiamo trovare «sommelier di salsa di soia, che organizzano assaggi paragonabili a quelli per le grandi regioni produttrici di vini». Alcune di queste vengono fermentate per un anno intero e costare centinaia di euro per una bottiglia, e vanno utilizzate solo per intingere. Senza rovinarsi, vale la pena allargare i propri orizzonti e scoprire sfumature aromatiche in quante più bottiglie possibile.
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