di Redazione Area C · 23 Marzo 2023
Nel luglio di novantacinque anni fa un gruppo di sette rematori torinesi si rende protagonista di un’impresa eroica. Rippa Franco, Giannoccaro Giovanni, Giannoccaro Antonio, Bonetto Alfredo, Rocca Imerio, Piana Mario e Vergiati Edgardo erano seduti a un tavolo del Caffè Fiorio e qui decidono di tentare ciò che mai nessuno ha provato: coprire a remi la distanza che separa Torino da Roma, circumnavigando mezza Italia e attraversando due fiumi e tre mari. È dalla metà dell’Ottocento che nel capoluogo piemontese si rema lungo il Po, nei primi tempi quegli strani personaggi con baffoni e casacche a righe si spostano nel tratto di fiume cittadino, da Cavoretto fino alla Madonna del Pilone, poi pian piano iniziano a spingersi sempre più in là. Nell’Ottocento il Po era completamente navigabile e quei nobili rematori provano a cimentarsi in esplorazioni a monte e a valle di Torino. Sono viaggi di scoperta da potersi effettuare in giornata, ma ben presto si inizia a progettare spedizioni ben più impegnative. Nel 1867 due circoli torinesi, Cerea ed Eridano, si sfidano fino all’ultima remata da Torino a Venezia. Ma la vera impresa arriverà qualche anno più tardi. Nel 1927 un gruppetto di sette rematori (cinque del Cerea, uno di Armida e uno del Caprera) decide di tentare una sfida senza precedenti che ancora oggi sarebbe difficilmente realizzabile. Un percorso a remi lungo 2.950 km suddiviso in quaranta tappe. L’itinerario prevede la partenza da Torino, la navigazione dell’intero Po fino ad arrivare nel mare Adriatico, la discesa lungo lo Stivale sino a Santa Maria di Leuca, il passaggio dallo Stretto di Messina e poi su nell’Adriatico per arrivare a Roma, da raggiungere risalendo il Tevere. Dal novembre di quell’anno gli intrepidi rematori iniziano così a incontrarsi settimanalmente al Caffè Fiorio, che diviene il loro quartier generale, per definire ogni dettaglio di questo viaggio dal sapore epico. Affinché l’impresa si possa realizzare occorre in primo luogo progettare un’imbarcazione adeguata, una barca che sia allo stesso tempo veloce e capace di contenere il non poco equipaggiamento necessario per questo tipo di raid. La barca, realizzata in legno di cedro, è lunga dieci metri e prevede sei vogatori e un timoniere. Il primo luglio del 1928 l’imbarcazione viene messa in acqua con la benedizione del parroco della chiesa Santi Pietro e Paolo ed è battezzata col nome «Piemonte». L’equipaggiamento deve essere essenziale, per non appesantire il carico, ma allo stesso tempo deve prevedere tutto il necessario per una navigazione così lunga. Oltre agli indumenti personali, vengono imbarcati viveri, due tende, delle lanterne a candele, carte marine e diversi strumenti per la navigazione. I medicinali includono l’oppio, la caffeina e il cognac. Il 7 luglio il viaggio ha finalmente inizio. Sono le 16.30 quando tra uno sventolio di fazzoletti e il lancio di fiori la barca si dirige verso Chivasso, dove al calar del sole, si conclude la loro prima tappa. Nei giorni successivi la navigazione è gradevole e il Po è ancora un fiume incontaminato. Annota uno dei vogatori: «L’acqua del fiume è così limpida in quel punto che invita a farsi bere». I rematori continuano la loro traversata e vedono passare sulle loro teste il futuristico idrovolante che da Torino porta a Venezia, seguendo il corso del fiume. La loro non è una barca come tutte le altre e per questo richiama l’attenzione delle persone che lavorano lungo i margini. Il viaggio procede senza soste come da programma iniziale e il 14 luglio, tra il caldo e l’umidità tipica del delta del Po, «Piemonte» abbandona le acque del fiume per entrare in quelle dell’Adriatico. Il timone è puntato verso la Puglia. Remare in mare è più faticoso e il caldo estivo certamente non aiuta, ma i valorosi vogatori trovano, lungo la costa Adriatica, il supporto dei bagnanti che li salutano incuriositi dalla spiaggia. La voce dell’impresa inizia a diffondersi e ad ogni tappa c’è una piccola folla che li aspetta e capita che canottieri di altre società si offrano di scortarli lungo un tratto di mare. A fine luglio arrivano così a Polignano a Mare dove hanno anche il tempo di visitare la bella grotta naturale. Quando giungono a Santa Maria di Leuca, hanno già percorso 1.600 km e puntano decisi verso Reggio Calabria. Ma tra temporali, vento contrario e mareggiate la navigazione si fa sempre più faticosa. Riescono comunque a passare lo Stretto di Messina e proseguono lungo la costa calabrese. Annotano nel loro diario: «Lungo la marina si affollano i bagnanti al nostro passaggio ed alcuni ci lanciano il “cerea” sacramentale che ci fa supporre che almeno una volta siano stati a Torino». Il primo settembre avvistano la foce del Tevere. Imboccano il fiume per dirigersi verso Roma e ad attenderli lungo gli argini trovano i bambini delle colonie che con le loro manine li salutano entusiasti. L’ultimo tratto, a causa di una forte corrente contraria, è più faticoso di quanto avrebbero immaginato. Decidono quindi di accamparsi a metà strada. Il 4 settembre la sveglia è di buon mattino e dopo qualche ora di remata: «Il fiume fa un gomito e poi ecco la famosa Basilica di San Paolo in una festa di sole». corriere.it