Alcune centinaia di lavoratori ex Ilva e dell’indotto hanno manifestato a Roma nel corso di un presidio convocato fuori dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) in occasione del tavolo di confronto sul gruppo Acciaierie d’Italia tra governo, azienda, Confindustria, comune di Taranto e le Regioni delle sedi degli stabilimenti. Tutto mentre nella stessa città di Taranto era stato indetto uno sciopero di 24 ore, da Fiom, Uilm e Usb, per i lavoratori dell’acciaieria e delle aziende dell’indotto.
“Via Arcelor Mittal da Taranto“, hanno rilanciato nel corso del presidio i lavoratori, che considerano l’azienda incapace di rispettare gli accordi e garantire il futuro occupazionale. “Aspettiamo da dieci anni la riconversione, chiediamo che l’intervento pubblico ci sia subito e che i 680 milioni di euro (previsti dal governo attraverso il nuovo decreto, come nuovo prestito ponte ad Acciaierie d’Italia, seppur convertibile in aumento di capitale con una salita di Invitalia fino al 60%, ndr) non vengano gestiti dall’azienda Arcelor Mittal“, hanno rivendicato dalla Fiom-Cgil. Attese e richieste che non hanno però trovato risposte, secondo i sindacati, nel vertice ministeriale. Perché se il tavolo ha convinto gli enti locali, a partire dal sindaco e presidente della Provincia di Taranto, Rinaldo Melucci, al contrario critici sono rimasti Fiom, Uilm e Usb in particolare: “È stato un incontro negativo, non ha dato garanzie sull’indispensabile risalita produttiva, sul rientro dei lavoratori dalla cassa integrazione, sulla sostenibilità degli impianti che per noi sono obiettivi legati, da subito, al controllo e alla gestione del gruppo da parte dello Stato, come previsto dal decreto governativo sugli impianti di interesse strategico nazionale”, ha spiegato Michele De Palma, segretario generale Fiom-Cgil, al termine del vertice.
Al contrario, il ministro Adolfo Urso si è detto convinto di aver avviato “un percorso comune“, con un “tavolo permanente e continuativo’ per rilanciare il sito siderurgico. “Forniremo le linee direttrici di quello che potrà essere l’accordo di programma“, ha continuato Urso, precisando che “l’azienda fornirà un cronoprogramma per il rilancio industriale e produttivo di Taranto e per la sua riconversione green”. Se i sindacati chiedevano però un’accelerazione sull’aumento di capitale dello Stato al 60%, tramite Invitalia, non c’è stata però alcuna decisione da parte dell’esecutivo, al di là della possibilità prevista dal decreto.
“Non siamo andati al Ministero per parlare di accordo di programma. Nel 2018 abbiamo fatto un accordo, l’unico sottoscritto dal sindacato, dove abbiamo stabilito 3.700 esuberi per 10.700 assunti, con alcune garanzie: zero cassa integrazione per gli assunti. Al contrario, pochi mesi dopo è partita la cassa integrazione”, ha attaccato Rocco Palombella, segretario generale Uilm. E ancora: “Il tetto di 6 milioni di tonnellate di produzione considerato indispensabile per l’equilibrio finanziario non è mai stato raggiunto, anzi siamo passati da 8 milioni e mezzo del 2016 ai 3 milioni del 2022. A marzo dello scorso anno è stata concessa la cig per 2500 lavoratori, senza accordo sindacale. E che fine fanno i 1.700 lavoratori di Ilva in AS e i 2000 dell’appalto? Tutto questo porta alla chiusura prima dell’area a caldo e poi di tutti gli stabilimenti. Sulla pelle dei lavoratori non si scherza”, ha continuato.
E pure la Fim Cisl, seppur più dialogante, ha espresso le sue perplessità: “Non abbiamo ricevuto risposte soddisfacenti. Se il programma è chiudere l’area a caldo non andremo avanti”, ha spiegato il segretario Roberto Benaglia. L’ad Lucia Morselli, invece, avrebbe dato garanzie sugli investimenti per il rifacimento dell’altoforno 5 e per il potenziamento della centrale elettrica, funzionali al recupero della produzione. Parole insufficienti secondo i sindacati, che si preparano a nuovi scioperi e manifestazioni, puntando anche a “impugnare davanti alla magistratura”, come ha anticipato Palombella, l’accordo del 2018.
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