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“Dobbiamo decidere se i farmaci servono a chi li vende o a chi li usa”

La riforma dell’Aifa, che porterà all’uscita del direttore generale Nicola Magrini il 23 gennaio, è stato uno dei primi provvedimenti del nuovo governo Meloni ma appare “un’occasione perduta” se non un “errore” che genera un “conflitto di interessi”. Il farmacologo e presidente dell’Istituto Mario Negri Silvio Garattini, 94 anni di cui 70 dedicati alla scienza, al Fattoquotidiano.it spiega perché la nuova veste dell’Agenzia italiana del farmaco “non è una buona notizia” e come il futuro assetto presenti moltissime criticità in un settore come quello farmaceutico dominato dagli interessi economici più che dall’attenzione alla salute dei cittadini. Senza contare che i farmaci in commercio, per cui l’Italia spende 22 miliardi ogni anno, sono troppi e “un 20-30%” si potrebbe eliminare.

La riforma ha abolito la figura del dg, che aveva ha tutti i poteri di gestione e ne dirige l’attività, mentre il presidente Aifa (attualmente il virologo Giorgio Palù) è diventato rappresentate legale dell’Agenzia. Sarà un decreto del ministero della Salute, insieme Funzione pubblica e Mef e d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, a individuare non più solo le funzioni, ma anche le modalità di nomina dello stesso presidente, nonché del direttore amministrativo e del direttore tecnico-scientifico. Sono state accorpate le attuali due Commissioni che si occupano di prezzi e rimborsi e della valutazione scientifica dei nuovi medicinali. Ci sarà una nuova e unica Commissione scientifica ed economica del farmaco al posto di Cts e di Cpr.

Professor Garattini, lei ha scritto che la riforma dell’Aifa non è una buona notizia. Mi spiega perché?
La riforma dell’Aifa è una occasione perduta perché hanno abolito la figura del direttore generale. Ci saranno un direttore scientifico e uno amministrativo e questo non va bene perché tutto il potere e le decisioni rimangono nell’ambito della presidenza. Significa che il presidente svolgerà sia il compito del consiglio di amministrazione, che è quello di controllare e dare indirizzi perché l’attività vada nella migliore direzione, ma allo stesso tempo anche il compito di decidere: c’è un conflitto di interessi. Anche avere due direttori non va bene perché il direttore amministrativo che determina le condizioni prevale sempre su quello scientifico. Servono un consiglio di amministrazione e un direttore generale. Poi i compiti possono essere distribuiti in modo diversi. C’è poi un altro problema.

Quale?
È giusto aver messo insieme il gruppo che decide scientificamente (Cts) e il gruppo che si occupa dei prezzi (Cpr); con due gruppi nessuno è responsabile delle decisioni. Una sola commissione va bene, ma quella prevista sarà composta soltanto di dieci persone. Il settore dei farmaci è diventato estremamente complesso e quindi non è possibile che dieci persone possano dominare tutto, a meno che non lavorino a tempo pieno. Ma se si vogliono scegliere le persone capaci e competenti sarà difficile che possano lavorare a tempo pieno. Bisogna avere più persone destinate alla commissione, avere una segreteria tecnica che istruisca le pratiche in modo che chi deve giudicare abbia a disposizione tutto il materiale.

Ci sono altri problemi?
Un problema è quello che l’Aifa è la sede in cui si decide la qualità dei protocolli. Chi deve fare uno studio clinico controllato deve passare attraverso l’Aifa, ma poi è stessa Agenzia che indica i risultati di quegli studi quando li esamina per l’approvazione. Controllore e controllato allo stesso tempo: così c’è un conflitto di interessi.

Ma secondo lei la riforma come doveva essere?
Toccare l’organizzazione più che la struttura perché come in tutte le organizzazioni ripeto ci deve essere cda e dg: aver cambiato è un errore. Cambiare i direttori continuamente non aiuta l’efficienza di una organizzazione. Poi c’è il fatto che spendiamo tantissimo per i farmaci, 22 miliardi, ma ne abbiamo troppi. I veri cambiamenti devono andare nel modo in cui opera Aifa. È dal 1993 che non viene riformato e riveduto il prontuario ed è una cosa necessaria perché abbiamo farmaci che sono vecchi e tanti che fanno la stessa cosa ma con prezzi differenti. È lì che bisogna cercare di migliorare le cose. Bisognerebbe che i farmaci non fossero solo studiati perché hanno qualità, efficacia e sicurezza; perché questo non ci dice se sono migliori o peggiori di quelli esistenti. Un farmaco nuovo dovrebbe essere migliore di un farmaco che già esiste per la stessa indicazione come prevede la dichiarazione di Helsinky, ma questo non dipende dall’Aifa. Il migliore dovrebbe restare nel prontuario e gli altri essere eliminati, ma questo non accade perché la legislazione europea non lo prevede.

Abbiamo troppi farmaci, mi può fornire una stima?
Abbiamo circa 1200 principi attivi e probabilmente una buona percentuale, il 20 o anche il 30%, si potrebbe eliminare. Un altro problema è che i farmaci, che fanno le stesse cose, non devono avere prezzi differenti.

E su questo può incidere l’Aifa?
Sulla questione può decidere perché c’è il comitato; il problema dei prezzi è molto delicato.

Lei ha scritto in passato che la parte scientifica è imprescindibile dall’etica e non si può non pensare a un riferimento alla cosiddetta lobby dei farmaci
A livello europeo non c’è la volontà di cambiare la legge: non si deve dimostrare che è un farmaco è migliore di un altro perché questo non è previsto. Ogni farmaco deve rispondere a requisiti di qualità, efficacia, sicurezza però non deve dimostrare se è il migliore. Questo fa bene all’industria perché ognuno può sostenere che quel farmaco funziona meglio, ma bisognerebbe fare studi comparativi e dovrebbe restare solo il migliore. Questo è nell’interesse dei cittadini e del servizio sanitario nazionale ma non del mercato. Certamente c’è una lobby farmaceutica perché è ovvio che chi vende qualcosa tenda ad aumentare il suo fatturato; è una legge del mercato. Ma questo non è il mercato dei vestiti o delle scarpe, ma della salute e deve essere un mercato rispettoso degli interessi degli ammalati. Dobbiamo decidere se i farmaci servono a chi li vende o a chi li usa.

E c’è anche l’eterno tema della ricerca scientifica che deve essere anche pubblica
Non ci può essere solo quella privata. Le informazioni non devono venire solo dall’industria. Oggi il medico da chi impara come funzionano i farmaci, gli effetti collaterali? Dall’industria. Non c’è una informazione indipendente per il medico. Manca la ricerca indipendente e l’informazione indipendente. Oggi la stragrande maggioranza degli studi clinici controllati viene realizzata in soggetti adulti maschi, mentre poi possono essere utilizzati nei bambini e soprattutto nei soggetti anziani con tutte le loro fragilità. Ancora più penalizzate sono le donne che dovrebbero partecipare a specifici protocolli visto che, per la stessa malattia, le donne sono differenti dai maschi per prevalenza, durata ed esiti.

Secondo lei qual è il rischio maggiore di questa riforma?
Che non ci sia più chi decide e chi controlla in contesti separati. Il vero problema è la mancanza una revisione del prontuario. Era in previsione quando c’era la ministra Grillo (governo Conte, ndr), ma non è andata avanti perché è cambiato il ministro. Molti dei 22 miliardi che spendiamo per i farmaci ogni anno potrebbero essere utilizzati meglio: per esempio nel sistema sanitario nazionale. E poi magari nella ricerca, perché siamo il paese che spende di meno. Per essere al pari con la Francia dovremmo spendere 20 miliardi in più all’anno. Abbiamo la metà circa dei ricercatori della media europea quando la calcoliamo per milione di abitanti. Questo purtroppo vale in tutti i settori: avere pochi ricercatori significa condannare il paese ad avere poca innovazione.

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