(Fabrizio Roncone – il Corriere della Sera) – Poi parleremo della perizia cimiteriale che ha consegnato alla Procura di Bergamo. Subito, però, un passaggio sulla felicità. La sua.
Perché Andrea Crisanti è un uomo felice. Di nuovo. Inaspettatamente. Porca miseria, se la vita sa essere pazzesca. Pensava di essere ormai costretto alla routine di un qualsiasi senatore del Pd, per ora senza mezza prospettiva di fomentare una crisi di governo e condannato perciò alla noia di Palazzo Madama, sedute ovattate e solitarie passeggiate dentro corridoi con le pareti di velluto e puttini a forma di applique, le luci sempre accese.
Ma non quelle che piacciono a lui.
Lui adora le lucine delle telecamere, il tecnico che ti applica il microfono sul reverse della giacca, il sottile brivido della diretta: e poi, quando parte la pubblicità, noi dei giornali che lo cerchiamo, che abbiamo ricominciato a cercarlo sul cellulare, adesso solo incerti se chiamarlo ancora prof o senatore, ma tanto lui è sempre una vera dolcezza (a 15 mila euro netti al mese, essere dolci è il minimo).
Così — ormai a 68 anni suonati — eccolo di nuovo in pista, Crisanti. Personaggio centrale. L’ultimo mohicano di quel mischione furibondo di epidemiologi, virologi, anestesisti, entomologi, tutti diventati famosi dentro il lungo incubo della pandemia, tutti docenti e primari e luminari fino ad allora sconosciuti e di botto diventati oracoli indispensabili: noi con il rosario dei morti, dei contagiati, con lo spavento di uno starnuto, il puro terrore anche solo di sfiorarci e loro collegati da luoghi spesso imprecisati, nella penombra di sagrestie ospedaliere, a indicarci strade incerte e, talvolta, sconosciute persino a loro. Per dire di Crisanti. Il 20 novembre del 2020, con la sua aria un po’ rassegnata e un po’ pedagogica, tipo che io vi avverto, ma poi fate un po’ come vi pare, dice: «Per produrre un vaccino, normalmente, ci vogliono dai 5 agli 8 anni. Per questo, senza dati certi, io non farei il primo vaccino a disposizione».
Adesso, sembra proprio che Crisanti abbia comunque ricostruito tutto. È così?
Il senatore è felice, e un filo agitato. «Preferirei non parlare». Allora interviene la sua portavoce, lo convince, hai straparlato con chiunque nelle ultime ore, evita di fare un casino proprio con il Corriere e allora lui si tuffa, senza indugi, nel suo brodo preferito: il colloquio con un giornalista.
Venti minuti di gentili chiacchiere al cellulare (alla fine si scopre che risponde da un ristorante, ma a lungo è stato divertente immaginare che rispondesse dalla villa palladiana comprata l’anno scorso a San Germano dei Berici, nel vicentino). Sensazioni: è convinto d’aver fatto un ottimo lavoro. «La mia perizia non ha precedenti: mai ne era stata realizzata una che avesse, per oggetto, una pandemia». Precisa: «Non è un atto di accusa: è una ricostruzione tridimensionale di ciò che accadde. Ho fornito ai giudici una mappa con cui orientarsi. Per esempio: ho ricostruito l’intera catena di comando del ministero della Sanità. E averla chiara, può aiutare i giudici a capire chi doveva e poteva fare qualcosa, e chi no».
Zero imbarazzi con il ministro dell’epoca, Roberto Speranza, ormai quasi collega di partito. «Più che imbarazzo, è dispiacere» (la tocca piano, eh). «Imbarazzo se fossi in debito con la coscienza. Invece sono stato spinto dal dovere morale che abbiamo con le vittime che potevano essere salvate». Sulla Lombardia, durissimo già da mesi: «Arrivò impreparata al disastro».
Nient’altro. Ora l’inchiesta che ruota sulla sua perizia. Servirà?
Nell’incertezza, un pensiero, e chi ci crede una preghiera, per chi — in quei mesi — morì.