Sono tre le possibili letture dell’arresto dell’ultimo boss dei Corleonesi
(di Antonio Amorosi – affaritaliani.it) – Matteo Messina Denaro, il boss della mafia mafioso più ricercato d’Italia è stato arrestato questa mattina alla clinica “La Maddalena” di Palermo. Coincidenza, l’evento è avvenuto a 30 anni esatti di distanza, più un giorno, dalla cattura di Totò Riina, preso il 15 gennaio 1993.
Era noto da tempo che Messina Denaro fosse gravemente malato per un tumore, ora si scopre alla zona addominale (probabile metastasi al fegato che si erano formate dal cancro al colon che lo aveva colpito due anni fa), così come è noto che “La Maddalena” sia uno dei centri di riferimento per i malati oncologici siciliani.
L’inchiesta è stata coordinata dal procuratore De Lucia e dall’aggiunto Guido. Il procuratore De Lucia ha spiegato che sono stati 2 i pilastri dell’inchiesta: le attività di intercettazione e lo sviluppo investigativo dei ROS oltre agli accertamenti tecnologici del reparto dell’Arma dei carabinieri. Un lavoro lungo e complesso quello che carabinieri dopo anni di indagini.
Nella ricostruzione a caldo sembra che, nei minuti precedenti l’interventi del ROS dei carabinieri guidati dal comandante, il generale Pasquale Angelosanto, il boss abbia provato a scappare. Si è parlato di un avvicinamento ad una finestra e il tentativo di scappare da quella. Ipotesi poi non confermata. Accortosi della presenza diffusa dei carabinieri, ad ogni angolo della struttura, Denaro avrebbe prima fatto finta di niente e poi risposto dichiarandosi con il vero nome. Messina Denaro era arrivato con un suo favoreggiatore, tale Giovanni Luppino a bordo di un’auto.
Il generale Angelosanto ha spiegato che l’indagine dei ROS si è concentrato nel tempo sulle condizioni di salute del latitante che si sapeva malato.
Il boss frequentava la clinica da due anni, ricoverato in day hospital almeno sei volte. Avrebbe ricevuto degli interventi chirurgici assumendo come nome di copertura, ironia del caso, quello di Andrea Bonafede, che ricorda il nome dell’ex ministro grillino anche lui siciliano. Ma Bonafede è anche un cognome diffuso tra il palermitano e il trapanese.
La questione ora più importante da comprendere è se Messina Denaro sia stato bruciato da qualcuno dei suoi uomini, infedeli, visto che non era ben visto da tutti gli ambienti post Corleonesi (qualcuno lo accusava di non assumersi tutte le responsabilità del comando) o ci sia un suo stesso placet all’arresto, forse per curarsi meglio dal male.
Di certo Messina Denaro stava cercando da anni di trasformare la mafia in qualcosa di più permeante il territorio di quanto fosse stata in passato, cioè in un sistema finanziario più anonimo e in grado di mimetizzarsi nella società fluida. La segnalazione ai carabinieri sarebbe arrivata pochi giorni fa.
C’è chi sostiene che siano tre le possibili letture dell’evento.
La prima dice che sia stato, di fatto, “consegnato” in cambio di cure e di un possibile allentamento nell’ordinamento dell’ergastolo ostativo che equivale a disincentivare i pentimenti dei mafiosi.
La seconda è che sia stato fatto individuare da sui ex sodali, viste anche le sue condizioni, in cambio di un’inabissamento definitivo di Cosa nostra, per poi meglio gestire gli affari. Messina Denaro resta davvero l’ultimo obiettivo di peso conosciuto dall’opinione pubblica, con condanne pesanti e fatti clamorosi, l’ultimo del clan dei Corelonesi.
La terza: che un evento fortuito abbia portato a identificarlo nella clinica. Il nome di copertura del boss coinciderebbe con un altro Andrea Bonafede che al momento degli interventi chirurgici del boss risultava altrove, non nella clinica dell’arresto. Intercettazioni telefoniche sulla famiglia avrebbero poi chiuso il cerchio facendo emergere la contraddizione. La finta carta d’identità di Matteo Messina Denaro per proteggere la latitanza era intestata ad Andrea Bonafede, nato a Campobello di Mazara (Trapani) il 23 ottobre 1963. Si ritiene che la carta di identità si stata falsificata da Denaro, apponendo una sua foto al posto di quella del signor Bonafede. Bonafede interrogato non avrebbe risposto alle domande degli investigatori.
Altra particolarità del caso, la clinica dove il boss aveva eseguito numerosi tamponi Covid per accedervi, nota in Sicilia per le sue terapie anticancro, è a 650 metri dalla sede di Palermo della DIA, Direzione Investigativa Antimafia.
A qualunque dei tre scenari si creda è più “normale” di quanto si pensi comprendere, anche se può sembrare assurdo, che il boss sia stato trovato, dopo 30 anni di latitanza, in Sicilia e a Palermo. Un soggetto criminale di questo calibro che non intende cedere lo scettro del potere, anche per le caratteristiche intrinseche dell’organizzazione, non può volatilizzarsi dal principale territorio di azione. Gli è più facile mimetizzarsi in nel territorio che conosce che cercare fortuna altrove, dove avrebbe meno margini di manovra per nascondersi e verrebbe più facilmente isolato.
Dopo la cattura, Messina Denaro è stato trasferito alla caserma San Lorenzo in via Perpignano per le operazioni di identificazione e da qui trasferito in elicottero in una località protetta.
Per ora non ci sono riscontri di qualche tipo che possano far pensare ad un eventuale coinvolgimento della clinica, anche perché i documenti che il latitante esibiva erano in apparenza regolari.
“L’accostamento della persona al latitante nei giorni passati era un’ipotesi ma il riscontro sulla sua identità c’è stato solo oggi”, ha spiegato il comandante Pasquale Angelosanto. Il procuratore De Lucia ha raccontato che “fino a questa mattina non sapevamo nemmeno che faccia avesse”, in riferimento alle vere sembianze del boss. Il procuratore capo ha anche aggiunto: “C’è una fetta di borghesia mafiosa che ha aiutato questa latitanza, su questo abbiamo contezza e ci sono in corso delle indagini”.
Il pm Paolo Guido ha rassicurato che le “condizioni di salute del boss sono compatibili con il carcere”.