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Anna Maria Gehnyei: «Nonostante si parli di lotta al razzismo, in Italia rappresenta ancora un tabù»

«Per alcuni sono troppo nera per parlare egregiamente l’italiano, per altri sono troppo nera per essere istruita. Ciononostante partecipo alla vita politica e sociale di questo Paese» ad affermarlo è Anna Maria Gehnyei, in arte Karima 2g, rapper e producer nata a Roma da genitori liberiani, che ha racchiuso la sua storia di italiana di seconda generazione nel libro Il corpo nero, pubblicato il 17 febbraio per Fandango.

Come ha preso forma questo libro autobiografico?
«Da piccola avevo un diario su cui appuntavo i miei pensieri più segreti. Soltanto a quelle pagine riuscivo a confidare la sensazione che provavo ogni volta che mi chiamavano negra, ogni volta che mi sentivo discriminata. Crescendo ho iniziato a raccontare la mia storia e mi sono resa conto che tanta gente non riusciva a comprendere cosa significasse vivere tra due culture, alcuni neanche conoscevano la Liberia. Così ho deciso di scrivere questo libro per rispondere a un’esigenza intima quanto sociale».

Seppur discriminata, preferisce non definirsi vittima di razzismo. 
«Il razzismo fa parte della storia dell’uomo e ne rappresenta la parte più oscura. È innegabile che, nonostante si parli tanto di lotta al razzismo, in Italia rappresenta ancora un tabù. C’è troppa paura del diverso. Per tale motivo non bisogna cadere nella trappola del vittimismo, ma impegnarsi per favorire l’integrazione. Per alcuni è ancora inconcepibile che una persona nera in Italia raggiunga l’affermazione professionale».

E invece lei ce l’ha fatta, nonostante il suo corpo nero che ha sempre attirato il pregiudizio.
«A scuola c’era sempre chi mi scrutava, mi urlava parolacce e qualche volta, addirittura, mi sputava o lanciava pietre. Una professoressa, una volta, affermò “non sopporto gli immigrati che si credono italiani”. Per strada capitava che ci fermassero per controlli e i poliziotti dicevano a mio padre che la sua macchina era troppo bella e nuova per essere davvero sua. Questi episodi facevano scaturire in me punti interrogativi e sensi di colpa. Fortunatamente, col tempo, sono riuscita a lasciarmi guidare dal ritmo delle mie radici, dalla musica a cui mio padre mi ha educata sin da piccola e ho trovato nell’arte lo strumento per abbattere il muro della paura ed esprimere le mie emozioni».

Così è diventata la rapper Karima 2g?
«È stato un processo lento: ho sempre sentito un richiamo feroce della mia terra d’origine, anche se ancora era sconosciuta. Soltanto quando, mossa dal bisogno di risalire alle mie radici africane, sono partita alla scoperta della Liberia, ho avuto la conferma che attraverso la musica posso trasmettere i valori della mia cultura e sensibilizzare la gente sul tema dell’integrazione delle seconde generazioni in Europa. Ho iniziato a cantare per gioco, facevo la ballerina in un locale e una sera che mancava il vocalist mi sono proposta. Da quel momento non ho mai più lasciato il microfono e, con il mio primo album, sono diventata Karima 2g, che sta appunto per seconda generazione».

Come riescono a coesistere Anna Maria e Karima?
«A casa sono Anna, sul palco Karima. Innegabilmente ci sono dei conflitti interiori, ma nessuna delle due prevale, vivono in simbiosi e rappresentano le due culture che mi contraddistinguono e mi permettono di essere capace di guidare la mia vita».

Per 24 anni, però, ha avuto la cittadinanza di un Paese in cui non era mai stata. 
«È assurdo, ma purtroppo è la realtà: noi figli di immigrati – nati sul territorio italiano – manteniamo la cittadinanza dei nostri genitori poiché i principi di appartenenza nazionale in Italia sono fondati sulla linea di sangue e sulla bianchezza. Ricordo ancora le file interminabili in questura per rinnovare il permesso di soggiorno. Poi, a seguito di un lungo iter burocratico, sono riuscita ad ottenere la cittadinanza italiana. Anche se mi sentivo italiana sin dalla nascita: sono andata a scuola qui, i miei amici sono italiani, amo la carbonara».

Cosa chiederebbe allo Stato?
«Proprio in questi giorni ho scritto una lettera al Presidente Meloni, le manifesto il mio rammarico per esser stata, per anni, un numero di pratica, in cui talvolta finivo per identificarmi. Deve essere consapevole di cosa significa per noi italiani di seconda generazione nascere su questo suolo e non avere diritti, vivere nell’invisibilità, appesi a un filo tra leggi e politiche. L’Italia da lei governata deve poter contare su una generazione che esiste, ma viene sepolta nell’ombra. Soltanto attraverso il riconoscimento sociale una persona può affermare la propria identità».

Quando ha superato il senso di colpa per essere nata in un Paese che la reputa straniera?
«Questo senso di colpa mi ha accompagnata da sempre perché i miei genitori – arrivati in Italia a fine anni ’70 con quello che poi sarebbe diventato l’ambasciatore liberiano – sarebbero dovuti rimanere pochi anni, ma poi è scoppiata la guerra, siamo nate io e mia sorella e sono rimasti bloccati qui. È stato un po’ come aver infranto il loro sogno di tornare in Africa. Però con il tempo, sviluppando maggiore consapevolezza, questa sensazione si è affievolita sino a diventare un motivo d’orgoglio quando ho vinto una borsa di studio alla John Cabot University che mi ha permesso di laurearmi Communications e Political Science. Ad amplificare la gioia un piccolo aneddoto raccontatomi da mia madre: quest’università americana con sede a Roma era proprio quella dove accompagnava le figlie dell’ambasciatore liberiano per cui i miei genitori lavoravano e sognava di poterci fare studiare. È come se si fosse chiuso un cerchio».

Oggi è una donna consapevole e realizzata. Com’è cambiato il rapporto con il suo “corpo nero”?
«Il mio corpo nero non è più una barriera, non soffre più per il giudizio della gente. È soltanto il mio corpo in cui ho deciso di abitare, raccogliendo e accogliendo tanta ricchezza culturale che spero di riuscire a trasmettere attraverso la mia arte».

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