Giuseppe Carlo Marino aveva 22 anni il 27 ottobre 1962, quando il presidente dell’Eni Enrico Mattei morì a Bascapè, pochi chilometri da Milano, nello schianto del suo executive Morane Saulnier 760. Adesso che di anni ne ha 83 racconta come si trovò sul luogo dell’incidente poche ore dopo, come ebbe subito l’impressione dell’attentato, come fu subito minacciato da un misterioso uomo dall’impermeabile bianco e come il direttore del Resto del Carlino Giovanni Spadolini mise subito a tacere il giovane collaboratore invitandolo a lasciare il giornalismo e dedicarsi alla professione di storico. Cosa che Marino ha fatto, coprendo per molti anni la cattedra di storia contemporanea a Palermo e scrivendo numerosi saggi sul fenomeno mafioso. Ma a 60 anni di distanza, mentre nell’intreccio di indagini e depistaggi non è ancora risolto definitivamente il mistero della morte di Mattei, la testimonianza di Marino restituisce soprattutto il ritratto di un’epoca, di un clima e di uno stile. E anche di Spadolini, ragazzo prodigio del giornalismo italiano, direttore del quotidiano bolognese a 29 anni prima di passare al Corriere della Sera e alla carriera politica che lo porterà fino a palazzo Chigi.
«Quando accennai all’ipotesi dell’attentato come spiegazione della morte di Enrico Mattei, Spadolini mi fermò: “Lascia perdere, il giornalista è un brutto mestiere e pericoloso. Tu diventerai un grande storico”. Sono sicuro, tuttavia, che anche lui non credesse all’ipotesi dell’incidente. Probabilmente era convinto si trattasse di un attentato ma che esistesse qualcosa di misterioso ed impalpabile in Italia che sconsigliasse di sostenere questa tesi. Ebbi la netta sensazione che Spadolini negasse per non affermare ciò che non poteva dire».
La corsa nella notte
In quegli anni il giovane Marino frequentava la Scuola superiore di idrocarburi che aveva sede nel cuore pulsante dell’Eni, a Metanopoli, appena fuori Milano. Si trattava di un istituto di formazione di cultura economica e di un centro per lo sviluppo di relazioni internazionali dell’ente fondato da Mattei. «La sera della tragedia di Bascapè, di ritorno da una passeggiata pomeridiana a Metanopoli, mi fermai a mangiare nella sala ristorante dell’hotel Santa Barbara. Improvvisamente l’ingegnere Domini Della Meduna, dirigente dell’Eni, noto per la sua militanza nella Decima Mas, mi diede la notizia della morte di Mattei, dicendo subito che si era trattato di un attentato e non di un incidente».
A Metanopoli si scatena il panico. Marino è sconvolto. «Pensai a come aiutare Giovanni Spadolini, col quale ero in contatto perché ne ero stato allievo e aspiravo alla carriera giornalistica. Così lo chiamai per chiedergli se potessi dare un contributo al giornale, dato che mi trovavo a pochi chilometri dal luogo della tragedia. Spadolini acconsentì e mi chiese di raccogliere tutte le notizie che potevo dicendomi che avrebbe mandato, prima possibile, l’inviato del giornale».
Marino però ha un problema. Non ha la macchina. A dargli un passaggio è il cronista di nera della Stampa Remo Lugli. «Arrivammo sul posto alle cinque del mattino. Ricordo la nebbia che avvolgeva la campagna, l’aria pungente. Lo scenario era sconvolgente. A parte i resti dell’aereo di cui era disseminata l’area, non potrò mai dimenticare la carne umana che pendeva dagli alberi».
Un primo inquietante dettaglio che colpì molto Marino: «La distribuzione dei resti umani dava tutta l’impressione che l’aereo fosse esploso. Ero giovane ma avevo chiara la differenza tra gli effetti di un’esplosione e quelli di una caduta di un corpo a seguito di un incidente». Alla spicciolata stavano arrivando altri giornalisti e tutti erano attirati dalla presenza di Mario Ronchi, un contadino della zona, unico testimone oculare di quella notte. Ronchi abita nella cascina Albaredo e riferisce ai cronisti di aver sentito un rumore «come di tuono» e di aver visto «il cielo rosso che bruciava come un grande falò con fiammelle che scendevano attorno». Il contadino, il giorno dopo, ritratta le sue dichiarazioni e nega tutto. Niente scintille, niente palla di fuoco, niente falò.
Dopo aver parlato con Ronchi i giornalisti discutono. «Ci scambiammo le idee, ognuno di noi fu invitato, se avesse voluto, a dire la sua. Io sostenni la tesi dell’attentato, pensando a quanto mi era stato detto dall’ingegnere Domini Della Meduna, a quanto avevo appena visto sul posto e alla testimonianza del contadino che assicurava di avere visto esplodere l’aereo in aria». L’ipotesi di Marino venne accolta con freddezza dal consesso dei cronisti. «Fui l’unico a sostenere l’idea dell’attentato. Mi colpì il silenzio che suscitarono le mie affermazioni. In quel momento decifrai la cosa come un legittimo dubbio, in realtà che non fosse un dubbio ma piuttosto un vero e proprio rifiuto lo appresi immediatamente dopo la riunione perché mi accadde un episodio davvero singolare».
«Stia attento. L’ho avvertita»
Tra gli alberi, gli orti e la boscaglia un uomo vestito con un impermeabile bianco che lo rendeva quasi invisibile nella nebbia, prende Marino per il bavero. «Con un eloquio accelerato e una perentorietà minacciosa mi disse: “Ho sentito le sciocchezze che ha detto, si guardi dallo scriverle o dal farle scrivere. Stia attento perché io leggo tutta la stampa italiana. L’ho avvertita”. Non ebbi il tempo di rispondere. L’uomo si dileguò e non lo vidi più». Marino si precipita a riferire il fatto a Spadolini che però non sembra turbato: «Non preoccuparti, i mitomani abbondano». Il giovane aspirante giornalista lì per lì si sente rincuorato. «Capii, tuttavia, che non era interessato all’ipotesi dell’attentato in quanto già schierato sulla tesi dominante e cioè quella dell’incidente. E poi mi disse di lasciar perdere, che il giornalista è un brutto mestiere e pericoloso. Sono sicuro, però, che lui non credesse all’ipotesi dell’incidente ma valutasse che ci fosse qualcosa di misterioso in Italia che sconsigliasse di indugiare sulla tesi dell’attentato».
Morte inevitabile
La procura di Pavia nel 1995 è giunta alla certezza che il presidente dell’Eni morì a causa di un attentato, il procuratore Vincenzo Calia è arrivato alla conclusione che l’aereo sul quale viaggiava Mattei fosse precipitato a causa di un sabotaggio reso possibile da complicità di esponenti dell’Eni e dei servizi segreti italiani. Ma per la procura non è stato possibile raccogliere prove sufficienti e trovare i mandanti.
Marino è sicuro che la morte di Mattei fosse inevitabile: «Era pericoloso per la politica estera degli Stati Uniti. Rischiava di spostare l’asse della politica italiana verso un rapporto organico con l’Unione sovietica. Mattei era convinto che l’unico modo per assicurare futuro all’Eni e all’indipendenza energetica italiana fosse limitare l’egemonia americana. La sua politica avrebbe portato ad accordi con l’Unione sovietica che avrebbero turbato anche l’intero sistema degli interessi geopolitici tra est e ovest nel quadro di una guerra fredda in pieno svolgimento».
A sessant’anni da quella notte drammatica, lo storico palermitano siede sul divano nel suo appartamento a pochi passi da uno dei mercati storici della città e tiene tra le gambe il suo libro Storia della mafia, edito da Newton e Compton nel 1998, nel quale ha già raccontato sommariamente la sua esperienza a Bascapè e stringe tra le mani una targa gialla con lo stemma del cane a sei zampe dell’Eni realizzata nel 1963. «Frequentavo uno stage per gli allievi della scuola presso un’azienda dell’Eni, mi avevano mandato, insieme ad un gruppo ristretto di colleghi, a Talamona in provincia di Sondrio. Un operaio dell’azienda addetto alla verniciatura mi fece il regalo di costruire questa targa che venne poi firmata dai miei colleghi».
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