È materia di stretta attualità, l’autonomia regionale. Se ne parla dal 1860, quando non era ancora compiuta l’unità d’Italia.
Annesse al Regno di Sardegna le province dell’Italia centrale, parve giusto conservare quanto di meglio fosse previsto dagli ordinamenti esistenti, pensando «un ordinamento amministrativo pel quale si accordino le ragioni dell’unità e della forte autorità politica dello stato colle libertà dei comuni, delle province e dei consorzi».
Così disse il ministro dell’Interno, l’emiliano Luigi Carlo Farini: «Noi siamo unificatori giudiziosi, non violenti conquistatori». Seguirono però la rapida, imprevista impresa dei mille, i plebisciti, l’annessione.
Cambiò tutto. Le province della nuova Italia erano ora troppo diverse tra loro. Si ritenne che solo con politiche unitarie, rigidamente unitarie, potesse esser costruito il paese.
Nel nuovo contesto, era impensabile – e non fu mai pensata – l’idea di dar vita a regioni. Quali regioni, poi? Avrebbero forse ricalcato i confini degli stati preunitari, Toscana, Regno di Sardegna, legazioni pontificie, le “due Sicilie” del regno meridionale…? Regioni preunitarie, antiunitarie? Tanto valeva non farla proprio questa unità d’Italia.
Ed in effetti, a ben guardare, passata tanta acqua sotto i ponti, è qui la matrice dell’odierno autonomismo, non già maggiore democrazia e autogoverno nell’ambito di una impresa nazionale comune, ma una ostilità verso quell’impresa, una avversione antiunitaria, “antiromana”, come hanno detto non impropriamente i leghisti, almeno fino a quando non si sono saldamente insediati a Roma. Nel nostro secolo sono loro in effetti a battersi per l’autonomia.
Spinte e controspinte
L’unità forzata della modernità feriva, e ferisce, le tante peculiarità dei municipi e delle città, «principio ideale delle istorie italiane», come suona il celebre titolo di Carlo Cattaneo, soprattutto nelle regioni del centro-nord dove si sentivano gli echi, veri o inventati, delle antiche glorie repubblicane.
A lungo il centralismo non fu tale da spengere l’orgoglio municipale, ma fu sufficiente a rinfocolarlo.
I movimenti democratici, socialisti, cattolici brandirono allora la difesa delle patrie locali come arma di lotta, culturale e di classe, al governo centrale, contro la borghesia.
L’opposizione si rafforzò quando la dittatura fascista rappresentò estremo approdo autoritario del centralismo, e ancor più quando nelle valli del Nord la lotta partigiana formò comunità orgogliosamente indipendenti.
All’Assemblea costituente la spinta antifascista risollevò il vessillo dell’autonomia, per inerzia estendendolo al regionalismo. Ci fu chi ne segnalò i pericoli, il carattere antistorico.
Per Pietro Nenni, quella specie di federalismo regionale era elemento pericoloso per l’unità dello Stato, era un errore, data la differenza che correva tra le parti del paese.
Per Francesco Saverio Nitti minacciava il “dissolvimento di tutta la vita italiana”. Poteva derivarne una rottura dell’unità nazionale, disse Palmiro Togliatti. Che peraltro, con la sua raffinata “doppiezza” da un lato ascrisse al merito del Pci di avere sventato il proposito della Dc di aprire la strada a un orientamento di tipo federale, «che avrebbe spezzato l’unità democratica dello Stato», dall’altro vedeva «ampie possibilità di utilizzazione della regione per resistere a una degenerazione reazionaria dello Stato e far compiere passi aventi alla nostra democrazia» (il che spiega la doppia anima, e i perduranti sbandamenti regionalistici delle sinistre). More italico, sul momento si preferì rimandare.
Senza fretta
«Andate adagio», ammonì Alcide De Gasperi nel 1952, «la Costituzione bisogna che venga attuata: però cum grano salis, con l’esperienza a tempo e a luogo».
Le regioni infatti arrivarono con oltre vent’anni di ritardo, quando si ripropose il problema di quali ne fossero i confini.
Come osservò un grande geografo, Lucio Gambi, la regione andava vista come «un’unità funzionale per quanto attiene valori economici e demografici, maglie di insediamenti e istituzioni sociali», laddove invece i nostri costituenti l’avevano intesa nei meri termini di un decentramento politico-territoriale, recuperando per inerzia la ripartizione regionale introdotta a fini statistici nel 1864.
Con la dissoluzione dei partiti nazionali, le forze centrifughe, “antiromane”, hanno riproposto il problema, sempre con l’ambiguità derivante dall’intesa che l’anticentralismo sia portatore di democrazia.
Si riproduce qui la tensione che caratterizzò il primo governo Berlusconi, che compì il miracolo di mettere insieme una forza nordista, antistatale e antiromana, la Lega di Umberto Bossi, e una nazionalista e statalista, in prevalenza centro-meridionale, come Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. Vedremo come se la cavano ora gli eredi di quei movimenti.
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